Appunti (confusi) per un’editoria ottimizzata
Un’amica sta scrivendo un libro. Un romanzo. Ha iniziato lo scorso anno, durante la Bottega di narrazione (che ho frequentato anch’io, ci siamo conosciute lì) e ora, trovandosi in un momento di stallo (o di dubbio o di riflessione o), ha deciso di cominciare a pubblicarne degli estratti. Incerta sullo strumento da utilizzare (il sito personale? la piattaforma Wattpad? Facebook?) ha scritto un post qui, la settimana scorsa. A quel post ci sono state parecchie reazioni. Qualcuno ha incoraggiato, qualcuno ha consigliato. Ho scritto un commento anch’io. Ho scritto a questa amica che il suo romanzo mi sembra bello e che lo leggerei volentieri e che dunque mi pare molto buona l’idea di farlo vivere – attraverso la pubblicazione – pur se ancora non è terminato. Le ho scritto anche che l’idea di Facebook non mi sembra buona (i contenuti si perdono) e che neppure mi sembra buona l’idea del sito personale – perché i testi narrativi non sono, per loro intrinseca natura, né ottimizzati né ottimizzabili – e che mi sembra invece buona l’idea di Wattpad. La preferibile, almeno, fra le tre alternative.
Nei giorni successivi, ho continuato a ragionare sulla frase che avevo scritto: “i testi narrativi non sono, per loro intrinseca natura, né ottimizzati né ottimizzabili”.
Su Internet, un testo ottimizzato è un testo che riesce a farsi trovare da solo. L’ottimizzazione funziona un po’ come lo scaffale di una libreria: potete scrivere un capolavoro, ma se il libraio lo lascia parcheggiato in magazzino difficilmente verrà visto e acquistato (in questa similitudine, per praticità, non esiste la distribuzione online). Sono (dovrebbero essere) ottimizzati tutti i testi che, in Internet, hanno un evidente scopo di vendita: dai portali di turismo alle farmacie ai negozi online di abbigliamento. Un testo ottimizzato deve ottenere due risultati. Uno: rendersi gradito all’algoritmo di Google (e degli altri motori di ricerca). Che lo premierà facendolo comparire in alto nella SERP (l’elenco dei risultati che vi compaiono quando fate una qualunque ricerca online). È importante finire nella lista dei primi dieci: perché sono pochi gli utenti che proseguono oltre. Due: rendersi gradito agli utenti. Che su Internet si aspettano testi brevi, di veloce lettura e di facile scansione (quella maniera tutta internettiana di leggere nella quale si scorre rapidamente il testo con gli occhi per capire – da qualche spizzico e mozzico – se fa per noi). Per ottenere questi risultati ci sono delle regole, codificate da tempo. Un testo ottimizzato parte da una lista di parole chiave che mimano il comportamento degli utenti. Questa parole, per la verità, non sono più semplici parole, ma ormai frasi di senso compiuto: se nei tempi passati un aspirante scrittore, a esempio, iniziava il suo lungo cammino verso la pubblicazione (o la perenne frustrazione) digitando su Google: pubblicare. E se, sempre nei tempi passati (ma meno passati), il nostro aspirante scrittore iniziava digitando: pubblicare libro casa editrice. Oggi il nostro aspirante scrittore digiterà, fra virgolette: “Come pubblicare un libro con una casa editrice non a pagamento”. Le ricerche – dicono le ricerche – diventano più precise, esigenti e financo narrative. Un testo bene ottimizzato aprirà dunque con il titolo: “Come pubblicare un libro con una casa editrice non a pagamento”. Bingo! esattamente ciò che vuole l’utente.
Si parte, dunque, con le parole o le espressioni chiave: da rintracciare con appositi strumenti (che neppure ha senso menzionare: basta fare una veloce ricerca su Google e si faranno trovare loro) e con un poco di ragionamento (che cosa presumibilmente digiterà il mio consumatore per arrivare al prodotto o servizio che io offro?). Si inseriscono queste parole o espressioni chiave nel testo: se già nel titolo, anche nel sottotitolo, e se possibile anche nelle prime frasi. Perché? Perché l’utente di Internet legge le prime righe in velocità: e se non trova subito quello che cerca passerà oltre. Un testo ottimizzato può essere breve o lungo; quando è lungo, viene strutturato in paragrafi. Fa abbondante uso di spazi bianchi per evitare “l’effetto blocco”, di elenchi puntati e numerati perché le liste sono belle ordinate e piacciono, e non si fa mancare l’uso di grassetti: mal che vada, l’utente leggerà solo quelli.
Queste sono, molto alla spiccia, le regolette base della scrittura SEO (ci sono poi gli interventi da fare nella struttura del sito; ma non ha senso parlarne qui).
Ora: che un testo narrativo non sia ottimizzabile mi pare molto evidente. Sono sempre stata convinta che non fosse ottimizzabile neppure un testo argomentativo o giornalistico (o, meglio, che i testi argomentativi e giornalistici venissero fortemente penalizzati dall’ottimizzazione) e che, dunque, la SEO (Search Engine Optimization) dovesse limitarsi ai puri testi commerciali. Il testo che state leggendo, per dire, non è ottimizzato: il titolo è buono, forse, per incuriosire, ma non per farsi trovare attraverso una ricerca online (che significa: “Appunti per un’editoria ottimizzata?”). L’attacco è tutto sbagliato: perché prenderla così alla lontana parlando dell’amica che sta scrivendo un libro? Dov’è la ciccia, dov’è l’argomento principale, di cosa si sta parlando? E i grassetti dove sono? I paragrafi, dove stanno? Per questi motivi, gli articoli scritti in ottica SEO tendono ad assomigliarsi un po’ tutti: se non per contenuti, se non per stile, almeno per struttura. Ed è giusto che sia così.
Torniamo alla mia famosa risposta: “i testi narrativi non sono, per loro intrinseca natura, né ottimizzati né ottimizzabili”. Confermo. E i testi di altra natura che pure non si propongono la vendita?
La scorsa settimana ho fatto un’interessante chiacchierata con un consulente che si occupa di “social media analysis”. In pratica, scandaglia la Rete con strumenti automatici (gli spider) ma anche manualmente (leggendosi post su post) per analizzare cosa la gente che sta su Facebook o su Twitter o su Instagram eccetera pensa e dice (meglio: dice e forse pensa) a proposito di determinati marchi e prodotti. Queste analisi stanno diventando sempre più sofisticate, e forniscono alle aziende informazioni molto dettagliate sui contenuti da pubblicare online, in tempo reale (esempio: “dalle nostre indagini risulta un picco di attenzione per le foto con una maglietta color cetriolo appoggiata sopra un termosifone bianco con accanto un tavolino su cui sta una copia di Jane Eyre aperta a pagina centoventiquattro davanti a una finestra dalla quale è ben visibile il tramonto delle sei e trentacinque ”. Beh, no, non così dettagliate). In somma: mi diceva il consulente che in Condé Nast esiste ormai un reparto di una sessantina di persone (e sessanta non son poche) che si occupa solo di questo: analizzare i social per regolare la produzione di contenuti di conseguenza. Non solo. Mi diceva che le case editrici, quelle più grosse almeno, quelle oltreoceano almeno, hanno elaborato degli editor specifici sui quali i giornalisti, direttamente, scrivono: in ottica SEO. Ossia: a mano a mano che scrivete, il vostro pezzo viene modificato dall’editor in tempo reale, perché sia in linea con i desiderata dei motori di ricerca, degli inserzionisti, e dai lettori (il pubblico-massa o il pubblico-nicchia che volete raggiungere) in quel determinato momento.
Incuriosita, ho fatto qualche ricerca, poi. Sul fantomatico editor non ho trovato nulla: potrebbe essere e potrebbe non essere. Ma sul ruolo crescente dei “big data” nella produzione di contenuti editoriali ho trovato parecchio.
È un comunicato stampa della stessa Condé Nast, di oltre un anno fa.
“Data collected through Condé Nast Spire is used to build highly accurate micro-segments focused on advertisers’ business goals, as well as to create relevant, custom content that resonates with those micro-segments to ensure the right message is delivered to the right consumer at the right time.”
Se questi “custom content” siano solo di natura commerciale o pubbliredazionale non è dato saperlo; certo è che difficilmente una mole di dati proprietari pari a “more than one trillion new data points every month” verrà confinata alla semplice vendita di spazi agli inserzionisti.
“When you combine our world-class content, influential audiences and powerful analytics, we plan to elevate performance to a whole new level.”
Cosa si intenderà, concretamente, per “to elevate performance”? e quale sarà, concretamente, il “whole new level”?
Torniamo alla mia famosa risposta: “i testi narrativi non sono, per loro intrinseca natura, né ottimizzati né ottimizzabili”. Confermo. Ma, come è evidente, quale che sia il risultato, l’ottimizzazione è entrata nel mondo dell’editoria: e non solo nella fase di promozione, ma anche in quella della produzione di contenuti.
È aberrante? Sia io che il consulente abbiamo ritenuto – e manifestato apertamente, quel giorno della settimana scorsa – che lo fosse. Perché sia io (che scrivo – anche – testi ottimizzati) che lui (che lavora – anche – con testi ottimizzati) sappiamo quanto l’ottimizzazione incida negativamente sulla varietà (già l’ho detto: i testi tendono ad assomigliarsi tutti); sulla libertà, se non di pensiero, almeno di espressione dello stesso; sulla bellezza, anche (come sarebbe stato il titolo di questo pezzo, ottimizzato? Qualcosa come: “Google e cultura: ecco come la SEO sta cambiando il mercato editoriale”. Piuttosto scontato, no?).
Nei giorni successivi, ho continuato a ragionare (sì, tendo costituzionalmente a rimuginìo): non più sulla faccenda dell’ottimizzazione, bensì sulla nostra reazione a pelle, su quel “è aberrante” (espressione usata tanto da me, quanto dal consulente). E – rimugina e rimugina – ha preso forma un ricordo. Un breve intervento di Eugenio Montale, sulle pagine del “Corriere della Sera” del 1° marzo 1964: che sono riuscita a recuperare. Con il titolo “Auto da fè”, Montale si scagliava contro il nuovo, terribile nemico che avrebbe portato a definitiva perdizione il già tendenzialmente degenerato mondo editoriale: i libri in dispensa.
“Da qualche tempo, quando voglio comperare un giornale a un’edicola debbo fare la coda. C’è sempre gente davanti a me che scruta, fruga, sfila tre o quattro dispense, consegna mille lire o più al giornalaio e si allontana soddisfatta. Si può giurare che è gente che non ha mai messo piede in una libreria. Acquistare per venticinquemila lire una cattiva edizione della Bibbia o della Divina Commedia può sembrare una follia; ma tant’è: qualunque spesa, se fatta col sistema del contagocce, è preferibile alle mille lire consegnate al libraio.
[…]
L’edicola vi risparmia simili preoccupazioni. Avete tutto sottomano: Bibbia, tre diverse edizioni di Dante, maestri del colore antichi e moderni, le Muse, le scienze, le religioni e chissà quante altre materie dello scibile. Ma il tutto è dispensato a dosi omeopatiche: a prezzo carissimo, è vero, ma praticamente inavvertibile. La dispensa, mi si perdoni il bisticcio, dispensa da ogni fatica di lettura: permette di piluccare ogni sera qualcosa, magari una frase, una citazione sbagliata, per poi dormirci sopra.
[…]
Sarebbe un errore madornale rilegare le dispense, trasformarle in pesanti volumi resi poi inutilizzabili dal sopraggiungere di nuove e più attuali dispense. Non resta che distruggere le vecchie dispense e procurarsi nuove Bibbie in veste sempre peggiore e a sempre maggior prezzo. Perché il compratore di dispense è un agorafobo che avendo orrore del vuoto suddivide a rate la sua vita e ne riempie tutti gli interstizi. Non diversa la pratica del football, del cinema e di altre arti del piede o dell’occhio. Il libro, finché sarà venduto dai librai e non dai parrucchieri e dai tabaccai, resterà ben lontano da questi requisiti”.
La minaccia rappresentata dai libri a dispense s’identifica in questo: nella scelta di gestire la cultura così come vengono gestite tutte le altre merci, nel paragonare librai a parrucchieri e tabaccai.
Un po’, confesso, mi è venuto da ridere: a confrontare (certo irrispettosamente) la reazione di Montale alla reazione mia. Passano gli anni, mi son detta (più di cinquanta, da quell’articolo), ma gli “O tempora, o mores” son sempre gli stessi. Posto che rimango della convinzione che subordinare la scrittura di un testo – narrativo, ma anche argomentativo o giornalistico – ai risultati di un’indagine di mercato o al “sentiment” dei social media sia effettivamente una aberrazione, mi domando se da questa nuova realtà (perché, ripeto, è una realtà) non si possa imparare qualcosa.
Di produttivo. Di costruttivo. Sarà che, per inclinazione ed educazione, tendo sempre a mediare, a cercare, se non del buono, almeno dell’utile e del vantaggioso là dove parrebbe non esserci. Sarà che ho strutturato il mio minuscolo sito in modo molto flessibile ed empirico: le pagine dove promuovo il mio lavoro sono rigorosamente ottimizzate (cercando di non scadere nei post-fatti-tutti-con-lo-stampino); gli articoli dove a volte parlo del mio lavoro e a volte no hanno titoli e sottotitoli “furbi”, e tutti i grassetti che occorrono: ma per il resto sono liberi; le scritture “creative” (estratti dai romanzi, racconti, recensioni, pezzi come questo qui) non seguono alcuna regola. Mi sembra un buon compromesso.
Un’amica sta scrivendo un libro. Un romanzo. Io ne ho letto un estratto: e l’ho trovato molto bello. Ho dato un’occhiata a Wattpad, ho visto quello che viene pubblicato, ho pensato al romanzo di questa amica accanto agli altri dei quali ho leggiucchiati gli incipit. Ho pensato anche ai romanzi miei: che sono più vicini a quello di questa amica che a quelli leggiucchiati su Wattpad. Non sto parlando di gerarchie di qualità e valore. Sto parlando di tono di voce, di pertinenza, di similarità. Di tipologia di pubblico. Ho consigliato a questa amica di pubblicare su Wattpad: perché – tra Facebook e un sito personale – mi pare il modo migliore per essere trovati. Lo penso ancora. Ma penso anche che la collocazione migliore per quel testo – per tono di voce e stile e contenuto e possibilità di essere comunicato – sia il sito che questa amica sta preparando e che già, un po’, riesco a immaginare. È che lì – so anche questo – il suo romanzo non verrà trovato (come del resto, nel mio sito non vengono trovati i miei). E allora mi dico: non ci sarà un altro modo? E cosa c’entra tutto il discorso sull’ottimizzazione con questo modo? Perché qualcosa mi pare c’entri. Ma ho le idee veramente poco chiare.
[L’immagine di copertina è di Courtney Brown]