Valentina Durante – Copy & Story | Che cos’è un’opera d’arte? Leggete “favole del morire”.
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Giulio Mozzi, Favole del morire

 

Ho letto “favole del morire” di Giulio Mozzi (Laurana, 2015) diverse volte in questi due anni e con diverse modalità: a volte dal principio alla fine, come opera organica, a volte limitandomi a uno-due pezzi per sessione: pezzi che, pur nella loro difformità formale (si va dal componimento in versi al testo teatrale al racconto) conservano una loro coerenza interna e una coerenza rispetto a un tutto: il progetto-libro. In entrambi i casi, sia nella lettura complessiva che in quella, per così dire, “parcellizzata”, ho avuto prima il sospetto, poi via via la certezza, di trovarmi di fronte a un’opera d’arte.

Ora: per argomentare questa affermazione – che non va interpretata come: “favole del morire” è un’opera bella (lo è, un’opera bella, ma non è questo il punto) – occorre chiarire che cosa io intenda per opera d’arte. Senza addentrarmi in (forse) tediose e (certamente) scivolose digressioni di estetica e senza soffermarmi sull’antitesi fra una concezione essenzialistica e relazionale di arte (ché sarebbe un ginepraio), dirò semplicemente che:

un’opera d’arte accade quando l’artista (colui che la fa accadere) riesce a porgere una verità sull’uomo attraverso una combinazione di contenuto e forma che non è mai stata tentata prima.

Questa definizione – per quanto, mi rendo conto, parziale e imperfetta – ha il pregio di essere facilmente “usabile” a fini di una categorizzazione.

La novità, anzitutto. È nuovo ciò che prima non c’era: l’artista è un creatore di realtà, ossia fa esistere cose prima non esistenti. Ovviamente, la novità è sempre relativa: si è nuovi rispetto a quanto è già stato detto mostrato scritto da chi ha fatto accadere prima di noi. Appoggiarsi a immaginari preesistenti è normale (e sano e inevitabile), così come è normale per un muratore allestire impalcature e ponteggi prima di tirar su un muro. Però, alla fine, è il muro che conta: e se impalcature e ponteggi servono a sostenere qualcosa che, lasciato da solo, finisce per franarsi addosso siamo di fronte a dei rifacimenti (che possono essere molto ben fatti) o a del semplice citazionismo (che, anch’esso, può essere molto ben fatto). Ma l’opera d’arte è, secondo me, un’altra cosa.

Gli immaginari ai quali ci si può appoggiare sono di due tipi: gli immaginari comuni, ossia la percezione o sensazione o complesso di idee che si presuppongono essere dominanti a proposito di un determinato tema; e gli immaginari creati da altri artisti.

In “favole del morire” Giulio Mozzi parla, per l’appunto, del morire (più che della morte); e, più che del morire, della perdita: che è passaggio, movimento dall’esserci al non esserci più o all’esserci in un altro modo, in un altro stato. E questo passaggio, questo movimento, riguarda noi e gli altri che non siamo noi: è un perdere e un perdersi.

Gli immaginari codificati attorno al morire e alla perdita sono prevalentemente di tipo tragico o drammatico, ma anche di tipo comico (dove la comicità ha funzione al contempo di sdrammatizzazione e apotropaica): e Giulio Mozzi (basta guardare la copertina, senza neppure addentrarsi nella lettura) sceglie apparentemente la seconda soluzione. Apparentemente, per l’appunto. Perché, anche se in tutti i pezzi di “favole del morire” è presente almeno un elemento comico, più o meno evidente o esasperato, nessun pezzo si configura come comico tout court ma, anzi, come massimamente tragico. Prendiamo il primo, “La stanza degli animali”. L’evento scatenante è piuttosto comico: un uomo, un biologo marino, conserva dentro una stanza gli animali catturati durante le sue esplorazioni. Li conserva, morti, dentro vasi pieni di formalina. Gli animali puzzano, e la puzza si sente fino dentro casa. La moglie se ne lamenta. L’uomo uccide la moglie con un cavo da freno di bicicletta. Eppure, né nella presentazione di questo evento, né in tutte le parti che seguono, si percepiscono elementi comici o grotteschi o di uno straniamento che dovrebbe portare, se non al riso, a un minimo di alleggerimento. Il livello di tensione è talmente elevato (ma mai troppo da implodere per accumulo, ottenendo l’effetto contrario) che la chiusura di “Fuga”, il momento forse più teso del pezzo, con la frase “Le mie mani, a pochi centimetri dalla mia faccia, irraggiungibili, mi fanno marameo” è struggente piuttosto che sdrammatizzante. Dunque: se Mozzi si è dichiaratamente appoggiato al comico, lo ha fatto attuando un superamento: e la novità, le impalcature e i ponteggi che cadono, alla fine di tutto, per lasciare spazio alla visione del muro nella sua autonomia e bellezza, è proprio questo superamento: la creazione di una surrealtà, intesa come realtà (immaginario) che va al di là delle realtà (degli immaginari) usualmente associati al morire e alla perdita.

Quanto agli immaginari creati da altri artisti, Mozzi ne fa ampiamente uso: e ne fa uso scoperto, dettagliando alcuni prelievi nella “Seconda notizia” che sta a chiusura del libro. Ma anche questi prelievi sono semplici ponteggi e impalcature e “favole del morire” non è un libro che si costruisce sul citazionismo né è un testo metaletterario. Perché quando Mozzi scrive, nella “Seconda notizia” appunto, e sempre a proposito della “Stanza degli animali”, che la rosa è «allegoria fortunata e ingombrante come poche», di fatto sta dicendo che: la rosa, nel suo essere ingombrante, nella sua stratificazione di significati e simbologie, finisce per essere “rosa” e basta, significati e simbologie si sovrappongono tanto da annullarsi gli uni con gli altri per lasciare spazio a una sola rosa: quella creata e vivente dentro la “Stanza degli animali”.

Se dunque “favole del morire” è opera d’arte in quanto opera nuova, opera che crea realtà, come avviene questa creazione? Quali sono le intelaiature di ferro i mattoni la malta che il muratore Giulio Mozzi utilizza per costruire il suo edificio? Non gli immaginari altrui che, come detto, fungono da impalcature e sono destinati a cadere, alla fine. L’unico materiale, le intelaiature i mattoni la malta che permettono la “combinazione di forma e contenuto mai tentata prima” sono dati dalla lingua. Mozzi non fa della lingua un uso sperimentale, non procede attraverso esperimenti linguistici, ma fa della lingua un uso inevitabile: tende la lingua al massimo delle sue possibilità così che possa rendersi materiale utile alla costruzione del suo proprio immaginario. Un immaginario autonomo dove non c’è trucco e non c’è inganno (non c’è, dunque, un uso artificioso della lingua), perché tutto è trucco e inganno (ossia vive come realtà solo all’interno della realtà costruita da Mozzi). E se proprio vogliamo connotarla, questa lingua, mi vien da dire che l’espressione più calzante è quella che la Yourcenar mise in bocca ad Adriano, per descrivere il greco: una lingua con una “flessibilità di corpo allenato”.

Abbiamo la novità. Abbiamo la combinazione di forma e contenuto. Manca la verità. Qual è la verità che Mozzi porge, con “favole del morire”? ce lo svela lui stesso in un pezzo che sta quasi alla fine e che titola appunto “Favola del morire”.

«Questa è la speranza: un’immaginazione»

La verità sul morire e sulla perdita è una speranza. E la speranza è un’immaginazione. Sì, ma quale?

Non l’immaginazione usualmente associata al morire e alla perdita: sia essa tragica (Mozzi, tal quale, la rifiuta), sia essa comica (Mozzi, tal quale, la oltrepassa). Non l’immaginazione creata dall’arte: che Mozzi si limita a usare come impalcatura per la propria immaginazione. Ma neppure è l’immaginazione che Mozzi stesso ci porge, nei pezzi che compongono “favole del morire”.

La speranza sta nell’immaginazione stessa, nella capacità che l’uomo ha di creare immaginazioni a proposito del morire e della perdita. Perché se l’uomo riesce a produrre immaginazioni a proposito di questo, se il morire e la perdita sono immaginabili, questo significa che sono anche controllabili: il rapporto che si stabilisce fra chi immagina e ciò che è immaginato è sempre di superiorità del primo sul secondo.

“favole del morire” è un’opera consolatoria? Sì, ma non perché fornisce un contenuto consolatorio. Lo è perché fornisce una modalità, un esempio: quell’immaginare che Giulio Mozzi, immaginando, ha dimostrato essere possibile.

Danza macabra

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