Valentina Durante – Copy & Story | Chi trama nella pubblicità?
Dai romanzi agli spot alle sedie: le narrazioni come progetti e oggetti
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Chi trama nella pubblicità?

 

Dai romanzi agli spot alle sedie: le narrazioni come progetti e oggetti

 

Un paio di settimane fa sono stata convinta (costretta?) da mio figlio a guardare un fantawestern. In “Cowboy & Aliens” di Jon Favreau si parte alla Sergio Leone – con il cattivo che spadroneggia nel villaggio, lo sceriffo imbelle, lo straniero misterioso e impavido, il saloon, le risse, i bicchieri spaccati, gli indiani – per finire dentro un’astronave extraterrestre in puro stile Ridley Scott, con gli invasori che imbozzolano gli umani dentro crisalidi bavose.

A circa un terzo del film c’è questa scena: il cattivo – che si intuisce essere non proprio cattivo-cattivo ma portatore di una qualche bontà che farà scattare a un certo punto della storia il grilletto della redenzione –, questo cattivo insomma, interpretato da un fascinosissimo Harrison Ford, regala un coltello a un ragazzino, così che possa difendersi: ci sono degli alieni da ammazzare e gli abitanti di un villaggio da liberare.

A quindici minuti dalla fine – dopo che ci sono state un bel po’ di sparatorie e che sono arrivati gli indiani (prima nemici e poi amici) e che la donna amata è morta e poi risorta e poi scoperta aliena e dopo che il protagonista-straniero-misterioso ha rielaborato la sua colpa e il suo lutto – la narrazione sembra davvero arrivata agli sgoccioli. Si capisce che l’astronave aliena verrà fatta saltare in aria e che il protagonista si salverà per il rotto della cuffia e che la donna amata-morta-risorta-aliena si sacrificherà per ristabilire l’ordine (un fantawestern deve comunque concludersi da buon vecchio western, ossia con la giustizia che trionfa e gli alieni a casa loro – tutti).

È a quel punto che io faccio un errore. Che, sbagliando, dico a mio figlio, ormai tutto proteso verso i titoli di coda: «No. Non è ancora finito. Il ragazzino deve usare il coltello e compiere un atto eroico.»

Urla e disperazione.

«Mamma! Ti ho detto centomila volte di non raccontarmi i film se li hai già visti!»

Lacrime e disperazione.

Gli ho rovinato il film. Un film che io realmente stavo guardando per la prima volta.

Ma mio figlio non mi ha creduto. Gli ho raccontato la storiella della pistola di Chekov – che sta in tutti i manuali di narrazione e che tutti i docenti di narrazione raccontano – e però mio figlio non mi ha creduto. Tu, mamma, il film lo conoscevi già.

Questa vicenda (vera) è abbastanza frequente se vi occupate anche solo un po’ di narrazione. Avendo fatto pratica con i meccanismi basilari – snodi, rapporti causa-effetto, “semine” (come dice Massimo Cassani) – è inevitabile che quando questi meccanismi sono ben evidenti la struttura dell’opera si disveli ancora prima che questa sia terminata: se sono stati “seminati” alcuni eventi (e con l’esperienza si arriva a capire che certi eventi sono “semi”), prima o poi questi eventi dovranno accadere. Se non li si fa accadere, la narrazione sarà gravata da un senso di imperfezione o incompiutezza (imperfezione e incompiutezza che possono anche essere consapevoli e ricercate: ma bisogna essere molto bravi per farlo).

In altre parole: a chi sa (o a chi, sufficientemente smaliziato, sa vedere), la trama è intellegibile non solo nella sua concatenazione di accadimenti, ma anche nella sua struttura.

È un male? È un bene? E cosa c’entra con la pubblicità e il design?

Una cosa alla volta.

Di trama – come si inventa, come si costruisce – parla un agevole e piacevole saggio di Massimo Cassani. Per introdurla, Cassani prende a prestito – e molto opportunamente – l’immagine della trama tessile, ossia di un oggetto: qualcosa che si può vedere e toccare. Perché la trama narrativa è un intangibile: la si vede in azione e però non è nulla che si mastichi o che si faccia annusare. Con la trama non ci laviamo la faccia alla mattina e neppure ci cuciniamo la pastasciutta. E se chiediamo a cinquanta lettori o a cinquanta spettatori di raccontare la trama del libro o del film che hanno letto o visto avremo, statene certi, cinquanta restituzioni diverse.

Però c’è la trama per come è stata pensata dall’autore: da chi il libro o il film lo ha costruito intrecciando relazioni, personaggi ed eventi. E di questa Massimo Cassani si occupa. Si occupa (ed è ciò che rende il suo libro interessante anche per chi fa la pubblicità o il design) del progetto.

Una trama ha un inizio e un finale. Inizio e fine devono avere una relazione di coerenza. La storia parte dal punto A, si dirama in altre storie per poi sintetizzarsi nel finale, nel punto Z. Tutte le vicende che nascono dal filone principale si incrociano fra di loro, e con lo stesso filone principale (per questo si parla di intreccio). Possiamo definire questi fili che vediamo snodarsi dall’inizio alla fine come sentieri narrativi. Il tutto va a comporre l’unitarietà della narrazione.”

E ancora:

Nel nostro perimetro narrativo è necessario che tutti gli elementi – dal punto di vista logico – siano coerenti fra loro. È questa coerenza a rendere credibile la narrazione. La coerenza riguarda gli elementi costitutivi la narrazione, ma anche la relazione fra inizio e fine del racconto stesso.”

Parlando di coerenza, Massimo Cassani cita Giulio Mozzi:

«Se all’inizio abbiamo un giovinotto lombardo e una giovinetta lombarda del Seicento che vogliono sposarsi, e un cattivone che lo vuole impedire, non possiamo avere alla fine i marziani che invadono la Patagonia per farne un luogo di vacanza per i loro pensionati

Ora: sebbene la trovata di Cowboy & Aliens sembri, come direbbe il Vasari, fantastichetta – si parte con il vecchio west e si finisce nell’astronave con un alieno dalle fauci bavose – tutto ha una sua coerenza interna: e non solo perché l’opera si inserisce in uno specifico genere, ma soprattutto perché l’arrivo degli alieni era stato “seminato” adeguatamente fin dall’inizio.

Anche una pubblicità è una narrazione progettata che deve avere una sua coerenza interna: non basta scegliere un’immagine accattivante e scriverci sopra qualche frase d’impatto. Non basta avere l’idea geniale, la “trovata”. Occorre metodo.

La struttura di una pubblicità (prendiamo in considerazione, per semplificare, una classica campagna stampa) è definita dalla copy strategy. Il minimo sindacabile di una copy strategy prevede tre elementi:

1) La promessa (promise), che è il concetto centrale, il pernio della comunicazione. Coincide con il vantaggio, il beneficio, il soddisfacimento del bisogno o del desiderio: dunque il motivo per cui il prodotto dovrebbe essere preferito rispetto a quello della concorrenza. Il beneficio può essere pratico, ma molto più spesso è psicologico (ancora meglio: si sottolinea un beneficio pratico alludendo però a un beneficio psicologico).

2) La giustificazione (reason why), ossia la giustificazione della promessa attraverso la principale caratteristica del prodotto. Perché il mio prodotto fa quello che promette di fare? Dov’è l’arrosto che rende possibile il fumo?

3) Il supporto (supporting evidence): gli eventuali, ulteriori elementi razionali che motivano o supportano la promessa.

Esempio terra-terra:

1) Promise: il siero idratante Skin Perfect previene le rughe (beneficio pratico), dunque ti rende più bella e sicura di te (beneficio psicologico).

2) Reason why: perché contiene acido ialuronico.

3) Supporting evidence: l’acido ialuronico è un componente naturale della pelle e ne garantisce l’elasticità.

Tra promessa e giustificazione deve esserci coerenza. In altre parole: la reason why che sostiene il beneficio “previene le rughe e ti rende più bella” non può essere: “perché è proposto nel nuovo e pratico dispenser con contagocce”. A meno che il dispenser con contagocce non serva a mantenere intatte le proprietà dell’acido ialuronico (vantaggio che potrà diventare, eventualmente, una supporting evidence). E questo a prescindere che il dispenser sia effettivamente nuovo ed effettivamente pratico: ma se io, comunicando, decido di presidiare un concetto, dovrò mantenere la focalizzazione su quel concetto e su quello soltanto, attraverso tutta la comunicazione. Se parto con i giovanotti innamorati con posso terminare con i marziani: e il marketing non fa eccezione.

Nella vecchia pubblicità, quella tradizionale (quella, per intenderci, che regnava incontrastata negli anni Sessanta e Settanta, ma anche Ottanta), i tre elementi-base della copy strategy erano pedissequamente esposti.

Prendiamo in esame questa campagna stampa del Gran Ragù Star, lanciato nel 1962.

Pubblicità Star

La promise allude a un beneficio pratico – non sarai più costretta a sminuzzare, rosolare, mescolare, sorvegliare il tuo ragù per ore – che porta a un beneficio psicologico: tuo marito sarà felice e tu, grazie a questo piccolo grande segreto (la lattina in formato gigante viene nascosta dietro la schiena), sperimenterai un timido tentativo di emancipazione.

La reason why è il fatto di essere pronto. E, come da manuale, compare non nella headline, ma nella bodycopy (il testo scritto in piccolo). La dicitura “condimento pronto” è sottolineata in rosso e l’aggettivo “pronto” compare ben tre volte: “condimento pronto”, “eccolo pronto”, “essere pronti”. Si presidia un concetto e uno soltanto.

La supporting evidence integra l’essere pronto con una ulteriore caratteristica a sostegno del beneficio: se la tua felicità deriva dal poter evitare un lungo lavorìo ai fornelli senza che tuo marito se ne accorga, è importante che il ragù non sia solo bello e fatto, ma anche buono. Di qui la frase: “squisito, perché di polpa magrissima e tenera-tenera!”

L’ABC della pubblicità, compitato come si deve.

Oggi una comunicazione così sarebbe impensabile: e non solo per quel “Signor Marito”. Esibire in modo tanto evidente (“telefonato”, diremmo noi pubblicitari), la struttura produce nei casi migliori disinteresse, nei casi peggiori un non desiderato effetto comico. Occorre essere più discreti. Allusivi. Mostrare e non mostrare. Occorre, in altre parole, dissimulare la struttura: il destinatario deve rimanere affascinato dall’elaborato disegno sul tessuto, ma l’intreccio di fili che quel disegno serve a creare e sostenere deve restare, sul retro, nascosto.

Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui […]?”

dice il Cardinal Federigo a don Abbondio, nella ramazina al capitolo ventisei dei “Promessi Sposi”.

Cosa succede quando la trama si disvela non solo nei suoi risultati, ma anche nei suoi meccanismi? Quando, come nel film “Cowboy & Aliens”, si intuisce subito che il coltello è la pistola di Chekov e che prima della fine sparerà?

Qualche mese fa, grazie a un mio cliente, ho conosciuto Katie Salen. Katie Salen è una game designer, una progettista di giochi: che le interessano non solo come scopo della sua attività progettuale, ma anche per ciò che possono insegnare sul design di altri sistemi.

«I giochi dichiarano esplicitamente il loro essere stati progettati per l’interazione e le scelte che richiedono a chi li gioca. La logica che li informa deve mostrarsi con chiarezza fin dall’inizio: in caso contrario, il gioco verrà abbandonato. Tutti i giochi richiedono un grosso investimento per essere chiari e articolati e coinvolgenti

Riprendiamo la frase di Cassani: “Una trama ha un inizio e un finale. Inizio e fine devono avere una relazione di coerenza. La storia parte dal punto A, si dirama in altre storie per poi sintetizzarsi nel finale, nel punto Z.”

Mi sembra che non ci siano poi molte differenze, in termini di principio. Mi sembra, cioè, che i meccanismi che stanno alla base di una buona trama siano equiparabili ai meccanismi che regolano un gioco ben progettato.

E cosa rende – tanto nella narrazione quanto nel gioco – buono il progetto? La coerenza abbiamo visto, ma anche la capacità – dice Salen citando Huizinga – di creare un “cerchio magico”.

Huizinga spiega che quando giochiamo, è come se entrassimo in uno spazio che è isolato e separato dal mondo reale. Uno spazio in cui conta un diverso insieme di regole, dove puoi essere libero e fare le cose in un certo modo, e le cose hanno significati molto diversi rispetto al mondo reale.

[…]

Il gioco è un’attività volontaria; le persone scelgono di farlo. E dunque: come si invita a giocare? Che genere di esperienze devi creare per convincere qualcuno a varcare la soglia e a entrare nel cerchio magico? Ovviamente il cerchio è uno spazio molto etereo, non ha confini netti: ci si muove costantemente dall’essere dentro all’essere fuori, mentre si sta giocando. Come designer, devi escogitare dei modi per invitare il giocatore all’interno del cerchio, e tenerlo lì. Che tipo di coinvolgimento stai sviluppando? E sarà in grado, il giocatore, di conservare quello stato mentale? di arricchirlo, farlo crescere? E poi: come gli darai modo di liberarsene? I giochi hanno questa meccanica: quando raggiungi l’obiettivo, il gioco è finito. È il momento in cui il cerchio magico si dissolve.”

Cassani parla di “perimetro narrativo”. Salen parla di “cerchio magico”. E a me continuano a sembrare la stessa cosa. Che si tratti di narrazione o di gioco o di pubblicità, un progetto è buono quando riesce a garantire coerenza: concatenazioni fluide, rapporti causa-effetto non forzati, assenza della casualità o presenza di una finta casualità o casualità architettata; e però, nel fare questo, non si mostra in atto: produce un bel disegno sul dritto del tessuto, ma elegantemente ne occulta il rovescio.

Poco sopra, nell’introdurre il testo di Massimo Cassani ho detto: è interessante anche per chi progetta oggetti. Questa percezione io l’ho avuta non alla prima, ma alla seconda lettura, quando la metafora del tavolo di Houston che Cassani usa ha evocato in me un altro testo: un’intervista fatta da Marco Romanelli a Martin Szekely e pubblicata su “Inventario”:

Nel 1999 [è Romanelli a parlare] mi mandasti le foto di una collezione  di armadi in lamiera piegata. Foto bellissime mostravano il processo di costruzione degli armadi, i quali tuttavia, una volta realizzati, non erano apparentemente così diversi da quei contenitori di lamiera che tutti abbiamo avuto sul terrazzo della cucina o usato nello spogliatoio di una palestra

[…]

Nella lettera mi dicevi, semplicemente, “tutti i mobili sono delle scatole” e nel testo allegato per la prima volta compariva una dichiarazione fondamentale: Io che ho tanto disegnato giungo a una proposta che non è più la conseguenza di un disegno: un design senza disegno, la separazione tra l’oggetto e la sua gestazione.”

Martin Szekely

Martin Szekely, Construction (2015)

 

Quali oggetti ci affascinano di più? Quelli che, pur sapendoli pensati e costruiti dall’uomo, ci sembrano avere una qualità o un aspetto primevo, come se esistessero dal principio del mondo. La sedia. La corda. Il coltello. La forbice. Il tavolo. Oggetti separati dalla loro gestazione. Archetipi.

Quali storie ci affascinano di più? Quelle che possiedono e mostrano un qualche rapporto con la vita. Ma non alla vita per come realmente è, bensì alla vita per come noi vorremmo che fosse: dotata di senso, di un poi conseguente a un prima – non solo per tempo ma anche per logica –, una vita regolata da una qualche forma di responsabilità interna o esterna. Una vita con un narratore che nell’artificio compone e dispone, e però dandoci l’impressione che tutto accada naturalmente. Le storie che funzionano sono oggetti narrativi separati dalla loro gestazione.

Quando dal design scompare il disegno, quando dalla trama scompare la tramatura, quando dall’affresco scompare la sinopia, rimane la vita o un’imitazione di vita o una percezione di vita. Noi nella vita. Perché è di noi che, alla fine – si tratti di un romanzo o di un prodotto o di una pubblicità – vogliamo sentirci raccontare.

 

Teresa Lim

Cartoline su tessuto: Teresa Lim, textile designer, riproduce all’uncinetto monumenti e paesaggi delle città che visita. Il suo progetto, in corso, si chiama “Sew Wanderlust”.

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