Valentina Durante – Copy & Story | Cinque cose utili (o forse no) che ho imparato sulla scrittura
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Cinque cose utili (o forse no) che ho imparato sulla scrittura

 

Una premessa doverosa: non sono una scrittrice. Ho scritto dei racconti, ho scritto dei romanzi ma – al momento presente (21 ottobre 2016) – non ho ancora pubblicato nulla (almeno: non con una casa editrice a livello nazionale). Scrivo però – per lavoro – da parecchi anni: testi pubblicitari, narrazioni aziendali, eccetera. Nel 2016 ho frequentato la Bottega di narrazione: ho prodotto, in questi undici mesi, fra romanzi e racconti, oltre due milioni di battute (per la precisione: 2.030.942, spazi compresi). La metà circa le ho scartate. Credo di essermi fatta – durante questo tempo e grazie alle battute scritte – un’idea abbastanza precisa di cosa significhi, per me, scrivere. Nelle ultime due settimane – da sabato 8 ottobre a oggi (venerdì 21 ottobre) – non ho scritto nulla. Ho scritto moltissimo, per la verità: testi per i miei clienti, post su questo blog, progetti, post su Facebook. Nulla, tuttavia, che potesse considerarsi “letteratura”. Credo di essermi fatta – durante questo tempo e grazie alle battute non scritte – un’idea abbastanza precisa di cosa significhi, per me, non scrivere.

Un’altra premessa ancora più doverosa: i “bisogna” che seguono sono personali e del tutto opinabili. Alcune cose mi sono state insegnate (e ringrazio Giulio Mozzi e Gabriele Dadati e testi come: (non) Un corso di scrittura e narrazione e L’officina della parola). Altre le ho imparate da me, scrivendo (e potrebbero – dunque – esser valide solo nel mio caso). Se questi “bisogna” saranno di giovamento a qualcuno, ne sarò felice. Restano, in ogni caso, un buon promemoria per me (e un ricordo di quest’anno, perché no).

  1. Per scrivere bisogna esitare (ma anche no).

Di esitazione parla diffusamente Giulio Mozzi, qui. In due parole: la scrittura è vischiosa e intervenire sul testo una volta che è stato scritto è cosa assai difficile. Ergo: non ha senso sciupare, per fretta o smania, un’immaginazione incompleta. Confermo: è successo anche a me. Intervenire, specialmente, a livello di voce narrante è molto, molto faticoso. Eppure. Avere un’immaginazione completa, perfettamente compiuta prima di azzardarsi a scrivere un solo rigo è cosa fattibile (io lo faccio) con i racconti. Un romanzo funziona, credo, un po’ diversamente. Il nucleo drammatico alla base di un romanzo si estrinseca nelle relazioni che i personaggi costruiscono fra loro: io posso formarmi, prima di partire, un’idea piuttosto accurata del ruolo che questi personaggi hanno, dello scopo o del desiderio che – più o meno consapevolmente – li muove (piuttosto che della loro psicologia, che vale quel che vale) e delle relazioni che da questo derivano. Ma finché non li vedrò agire, realmente, sulla carta (certo: monitor del pc; ma carta è più fascinoso), finché non li descriverò scena per scena, battuta per battuta, movimento per movimento io non potrò mai dire di conoscerli per davvero. Esiste un personaggio ideale: e sta nella mia testa, prima che io cominci a scrivere. Ed esiste un personaggio reale (benché fittizio): si forma, nel testo, giorno dopo giorno, mese dopo mese; è diverso da quello che io mi ero prefigurata (un poco diverso? molto diverso?) perché – nella sua coerenza di personaggio che deve rendere conto solo a se stesso – dice e fa cose che io, all’inizio, mai avrei immaginato potesse dire o fare (magari perché a me, come autrice, come persona, non garbano molto). Nello scrivere esiste, secondo me, una componente di sorpresa della quale occorre tener conto: ed è una sorpresa che nasce, paradossalmente, dalla coerenza piuttosto che dall’anarchia. È la nostra immaginazione che arriva a stupirci, a presentarsi a noi come se la incontrassimo per la prima volta, come se fosse stata prodotta da qualcun altro. Per dire: quando inizio a scrivere un romanzo conosco sempre il finale; e puntualmente, circa a metà dell’opera, lo modifico (questo significa che mi tocca, poi, rivedere tutto ciò che sta prima; scrivere vuol dire soprattutto riscrivere).

  1. Per scrivere bisogna leggere (ma anche no).

Che la lettura sia, per chi scrive, un’attività imprescindibile è cosa talmente condivisa da essere un’ovvietà. Si scrive nel solco di altri (ognuno dei miei testi si appoggia almeno al testo di un altro autore: molto più bravo di me, ovvio), e più solchi si tracciano – nella propria testa – più possibilità si hanno che il carro – ben indirizzato – arrivi a destinazione. E poi rapportarsi ad altri è bello: ci si sente parte di una comunità che trascende il tempo e lo spazio: si gioca con l’immortalità, in un certo senso, con la capacità dell’uomo di superare se stesso e i propri limiti biologici attraverso il prodotto della propria immaginazione. Però. Leggere per leggere è una cosa. Leggere per scrivere è un’altra cosa. Come si possa leggere in funzione della scrittura lo spiega Giulio Mozzi, qui. Sempre riassumendo: bisogna imparare a vedersi, a sentirsi, nella propria attività di lettori. E non solo, secondo me: bisogna imparare anche a vedere, a sentire gli altri nella loro attività di narratori. Si comincia, cioè, a considerare i testi altrui come insiemi di soluzioni: soluzioni a problemi di forma, di concatenazione, di struttura, eccetera. Ogni volta che leggo un paragrafo, io mi domando: perché l’autore ha fatto questo? Che problema deve essersi posto per aver escogitato questo tipo di soluzione? (e mi figuro il problema, e faccio delle ipotesi) E io, a questo stesso problema, che tipo di soluzione avrei dato? (e mi figuro delle alternative). Una lettura di questo tipo diventa – com’è ovvio – lunga e laboriosa. Peraltro, non sono le letture a essere utili, quanto le riletture: la prima volta ci si fa un’idea della trama, dello stile, ci si orienta un minimo. Ma il lavoro vero e proprio comincia quando si riparte daccapo.

  1. Per scrivere bisogna scrivere (ma anche no).

Un incubo ricorrente infesta il sonno di chi scrive (non necessariamente degli scrittori-con-patentino; anche dei copywriter o di chi fa “scrittura professionale”): la sindrome del foglio bianco. Ci si mette davanti al pc, si apre un foglio word e in testa non c’è nulla: niente che possa venir tradotto in testo, in battute scritte. Ecco: a me non è mai successo. E non perché io abbia qualche dote particolare o qualche ricetta magica: semplicemente, quando nella mia testa non c’è nulla, io non scrivo, non ci provo nemmeno. In questi undici mesi ho scritto praticamente ogni giorno: sabati, domeniche e festività comprese. Ho scritto perché avevo cose da scrivere, perché – durante la giornata, mentre facevo dell’altro – lasciavo che grumi di immaginazione mi si formassero in testa. La voce narrante raccontava e io trascrivevo (ho sempre con me un Moleskine e una penna, una matita; ho sacrificato parecchie cene sull’altare della scrittura: alla mia voce narrante piacciono proprio quei momenti lì: quando la carne si sta cuocendo). Davanti al foglio bianco, un buon cinquanta percento del lavoro era già fatto: il resto – per quella sessione – veniva da sé. E quando non c’era più nulla lasciavo perdere: sapevo che nuova immaginazione si sarebbe prodotta il giorno dopo, magari facendo una passeggiata, o la doccia, o lavando i piatti (altra contingenza fertilissima). Come la manna nel deserto: arriva da sé, ogni giorno, e ce n’è per tutti e solo la quantità che occorre. Dunque: per scrivere bisogna immaginare; ma buona parte di ciò che si immagina, lo si immagina quando non si scrive.

  1. Per scrivere bisogna star soli (ma anche no).

Una volta l’immaginazione io me la figuravo così: un visitatore che – mentre sei impegnata a far altro – bussa alla porta di casa chiedendo: posso entrare? Ed ecco: tu apri, lui si mette comodo e comincia a raccontare. Oggi io l’immaginazione me la figuro ancora a quel modo: però qualcosa, nella scena è cambiato. Il visitatore bussa (io sono impegnata a fare altro), e chiede: posso entrare? Apro la porta: prego, prego – dico – non aspettavo di meglio. Un momento – dice lui – mentre ha solo un piede sull’uscio (giova immaginarsi, fuori, una tormenta di neve? uno scrosciare di pioggia? un ululare di vento?). Allunga il collo, dà una sbirciata in casa: ci sono altre persone, con lei? è impegnata a fare altro? c’è tutto lo spazio che occorre? e domani? e dopodomani? e fra due, tre, cinque mesi? L’immaginazione è un ospite molto generoso, ma altrettanto esigente: si è preso – in quest’ultimo anno – una parte consistente delle mie giornate: quando scrivevo, ma soprattutto quando non scrivevo. Facevo la mia solita vita – andavo al supermercato, preparavo la cartella a mio figlio, scrivevo testi di tutt’altro genere, per i clienti – ma in uno stato, se così si può dire, di attenzione parziale continua. Perché dentro la mia testa continuava a esserci una storia che andava formandosi, una voce narrante che raccontava, il visitatore bello comodo in poltrona che sorseggiava la sua tazza di tè, lieto di non avere nessuno fra i piedi. È stato faticoso. È stato anche pericoloso: i confini tra finzione e realtà si sono spesso confusi e sovrapposti. È stato, tuttavia, necessario.

Col passare dei mesi ho preso atto di un altro tipo di cambiamento: forse riguarda solo il caso mio, forse no. All’inizio, si parte con grande entusiasmo e con mezzi limitati: si spalanca la porta al visitatore, lo si abbraccia con trasporto, gli si dice: prenditi tutto quel che ti occorre – tempo, spazi, ti do tutto, fa’ tutto quello che vuoi. Non ci si prefigura la fatica, né il rischio. Si scrive così come viene: la voce narrante è la voce naturale propria, la percezione di ciò che si può fare – a livello formale – con il testo, è assai contenuta. Col tempo (ossia: leggendo, scrivendo e riscrivendo) gli strumenti si affinano: si capisce di avere a disposizione moltissime opportunità: forme, nuclei drammatici, voci narranti… ci si pone il problema della scelta, della convenienza, dello scrivere nel solco di qualcuno, del rapportarsi a una tradizione. Nel contempo, si comincia a sentire la fatica: di immaginare continuamente, di mettersi a servizio dell’opera… E allora viene la tentazione: di lasciar fare alla tecnica, di tirare un poco indietro, di utilizzare – per così dire – dell’ “immaginazione di repertorio”. Io questa tentazione l’ho avuta sabato 8 ottobre: ed è stato uno dei motivi (non l’unico) per il quale ho deciso di fare una pausa. Perché ho capito che stavo ingannando me stessa: non esistono pasti gratis, la tecnica può fare molto, ma non può immaginare al posto nostro. Non sono sicura di questo. Nel dubbio, però (il dubbio di fare il verso a me stessa), ho preferito fermarmi. Peraltro, io non credo si scriva narrativa perché, genericamente, “si ha qualcosa da dire”: esiste la saggistica – se lo scopo è questo, non la vedo certo come una scelta sminuente. Si scrive narrativa perché si accetta di accogliere, dentro di sé, una storia: ci si mette al suo servizio e le si dà modo di estrinsecarsi attraverso un consapevole lavoro formale, che si rapporta con altre scritture e altri autori.

In queste due settimane ho recuperato parecchio lavoro lasciato indietro: ho partecipato a riunioni, incontrato colleghi, scritto molti testi per clienti, fatto e ricevuto telefonate. Il mio visitatore non si è fatto mai vivo: però so che c’è, che è fuori dalla porta di casa, che – ogni tanto – dà qualche occhiata all’interno. Ma il suo sguardo parla chiaro: o sgomberi la stanza, o mi prepari la poltrona come piace a me e la tazza con il tè caldo e le pantofole, oppure scordatelo, che io metta piede lì dentro. Infatti, come dicevo, io in queste due settimane non ho scritto – di “letterario” – nulla. Però ho capito: l’immaginazione non se ne va (la mia non se n’è andata); ma sa ben distinguere quando è la benvenuta e quando non lo è. Ci sono buonissimi motivi per non farla entrare: mettersi al suo servizio è molto, molto faticoso. Si può non avere voglia di farlo. Si può non essere nelle condizioni per farlo. Però la possibilità di scegliere c’è (almeno: io sento che c’è): a me bastava essere sicura di questo.

Dunque per scrivere bisogna stare soli. Ma l’immaginazione si nutre di vita vissuta: parole dette, lette, ascoltate; gesti fatti e visti; persone, situazioni… Come si bilancino fra loro vita e scrittura (meglio: la scrittura all’interno della vita), finzione e realtà, isolamento e apertura all’esterno ecco: io devo ancora definirlo per bene. Grandi consigli, a riguardo, non ne ho (anzi: ne accetto, e di buon grado).

  1. Per scrivere bisogna avere coraggio (e questo sempre).

Diceva Alda Merini: l’amore è un rischio grandissimo, come la letteratura. Che amando si rischi è fuor di dubbio. I rischi legati alla letteratura mi erano invece – fino a un anno fa – piuttosto oscuri: si rischierà, mi dicevo, di scrivere come ossessi senza venir mai pubblicati. Oppure di far la fame. Altro non mi veniva in mente. Oggi ho capito che, scrivendo, di rischi se ne corrono parecchi: più o meno grandi. Il rischio di non riuscire a superare la vischiosità di un testo già scritto, che sembra immutabile o senza speranza: ma al quale si vuole dare una seconda possibilità (o una terza o tutte quelle che servono). Il rischio di mettersi a servizio dell’opera: dedicarle tempo, energie e concentrazione, sottraendolo ad altre cose e ad altre persone. Il rischio, soprattutto, di trovarsi davanti al prodotto della propria immaginazione: che – se abbiamo agito con coerenza e rendendo conto unicamente all’opera – può rivelarsi anche sgradevole o addirittura disturbante. Ci appare come altro da noi – tanto da sorprenderci – eppure è stato fabbricato da noi, dal nostro pensiero: a volte è difficile prenderne atto. Per me è stato difficile.

Ieri sera ho scritto, su Facebook, un post che nulla c’entra (apparentemente) con questo. Ho concluso con una frase, che poi ho cancellato: perché non ero sicura, volevo pensarci su. La frase diceva: ogni atto di coraggio, di qualunque tipo, a me fa venire in mente questo: una piccola nascita. Ecco: adesso sono sicura. Nella scrittura davvero occorre coraggio: così mi è stato insegnato. E questo coraggio, aggiungo io, somiglia proprio a una piccola nascita.

 

rebirth

Mariko Mori, Rebirth

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