Composizione n. 10 in bianco e nero (molo e oceano)
Il punto di osservazione sono le gambe.
O meglio: sono chiaramente gli occhi a osservare, ma poiché in questo momento sto camminando, il mio punto di osservazione – gli occhi – dipende dalle gambe, ed è mobile: si sposta, oscillando, a mano a mano che io avanzo.
Il programma, all’origine, era questo: di camminare in linea retta e parallelamente all’orizzonte.
Il cielo è limpido, il mare uniforme e la linea dell’orizzonte li divide nettamente in due, spaccando l’inquadratura quasi a metà: sopra, un cielo celeste cielo; sotto, un mare blu marino, senza foschie o possibilità di fraintendimenti. Questa separazione nitida deriva non tanto dalle due gradazioni differenti di blu – celeste e marino – ma principalmente dalla loro consistenza difforme: dovendo trasporli su tela, il primo richiederebbe l’uso di acquerelli, il secondo di un olio denso e grumoso.
Rispettare il programma, tuttavia, è stato impossibile: per via della marea.
Quando sono tornato, dopo pranzo, il mare si era incredibilmente ritirato: però in modo disomogeneo. In alcuni tratti, la rena si è trovata scoperta per venti o trenta centimetri; in altri tratti per un paio di metri. Il profilo della costa, prima regolare, è ora segmentato in sporgenze e insenature che svelano ampi tratti di sabbia bagnata, percorsa da dune poco rilevate.
Il programma – definito al mattino, con l’alta marea – era: di percorrere un tratto di costa a piedi scalzi e parallelamente all’orizzonte, con i polpacci immersi nell’acqua fino quasi al ginocchio e mantenendo un’andatura regolare.
Il mio obiettivo: creare un’intersezione ritmica quanto più vicina alla perfezione – sia visivamente, sia acusticamente – fra l’avanzare regolare delle onde e la massa d’acqua spostata dai miei piedi, dai miei polpacci, dalle mie ginocchia.
Ho dovuto variare un elemento del programma – l’avanzamento in linea retta, appunto – per via della marea.
Mentre cammino, ora, sono costretto ad assecondare il profilo intemperante della costa, per far sì che il mio corpo resti immerso a una profondità costante: solo in questo modo sono in grado di produrre, a ogni passo, lo stesso spostamento d’acqua, dunque lo stesso suono, dunque la stessa intersezione con l’acqua spostata e con il suono prodotto – dalle onde.
Sono partito alle sedici e trentacinque. Indosso un costume da bagno e un marsupio allacciato in vita. Porto gli occhiali da sole. Dentro il marsupio tengo un pacchetto di fazzoletti e il telefono cellulare: ho regolato il timer del telefono, alla partenza, per calcolare trenta minuti esatti di cammino all’andata e trenta minuti esatti di cammino al ritorno. Ho deciso di non camminare più a lungo per evitare di stancarmi troppo: la stanchezza farebbe rallentare l’andatura, producendo una discordanza fra la composizione ottenuta all’andata e la composizione ottenuta al ritorno.
Sto camminando da tredici minuti.
Mi muovo a zig zag, assecondando il profilo della costa, così da mantenere l’acqua a un livello costante. Quando mi sposto in diagonale, sento un lieve flettere della resistenza opposta dall’acqua, dunque dall’immagine e dal suono prodotti dai miei piedi, dai miei polpacci, dalle mie ginocchia. È un compromesso che devo accettare. Più difficile è escludere l’insieme delle immagini e dei suoni prodotti da tutto ciò che non è mare, da tutto ciò che non è onde, da tutto ciò che non è acqua. Le alghe: ricce, rosse, spugnose; piatte, verdi, frastagliate, lucide; a spaghetto, brune, viscose. I piccoli animali marini: granchi; pesci dal corpo lattiginoso e semitrasparente; qualche medusa che scorgo sulla riva, mentre spurga fluidi dal corpo, annullandosi nella sabbia. Ma soprattutto le altre persone: che stanno facendo il bagno oppure che, come me, camminano, introducendo (c’è poco da fare) un elemento di notevole disturbo. Cerco, per quanto mi è possibile, di escluderle dalla visione e dall’ascolto, e di concentrarmi solo sull’andatura. A essere rigorosi: anche i miei piedi, i miei polpacci, le mie ginocchia rappresenterebbero – non essendo mare, non essendo onde, non essendo acqua – un elemento estraneo. Ma poiché i miei piedi, i miei polpacci, le mie ginocchia sono necessari allo spostamento d’acqua che va a intersecarsi con lo spostamento d’acqua prodotto dal mare, dalle onde, questo elemento teoricamente estraneo si rivela strumentalmente necessario.
Al minuto ventidue: mi trovo difronte un bambino che – correndo verso un gonfiabile a forma di coccodrillo – mi taglia la strada, schizzandomi sul costume e poco più su, sulla pancia. La pelle è accaldata e il contatto con l’acqua fredda – specie su pene e testicoli – mi porta istintivamente a ritrarmi, e a rallentare di qualche secondo la falcata.
Al minuto trenta: suona la suoneria del cellulare. Apro il marsupio. La silenzio. Mi fermo. Alla mia sinistra ci sono una bambina e una donna di circa trent’anni. Indossano un costume dello stesso colore. La donna tiene sollevato, a pelo d’acqua, un secchiello rosa. La bambina vi immerge delle alghe. Sceglie solo alghe rosse, lasciando da parte quelle verdi e quelle brune, a forma di spaghetto. Le solleva pinzandole fra pollice e indice: l’alga, gonfia e spugnosa dentro il mare, si svuota di tutto il liquido non appena sollevata trasformandosi in un cencio rossastro e gocciante.
Mi volto. Valuto la stanchezza delle gambe. Non c’è stanchezza: mi sento come mezz’ora fa, quando sono partito.
Sono le diciassette e tredici. Programmo il timer, riprendo a camminare. I primi minuti, mi concentro sull’andatura: non sento stanchezza, come ho detto, dunque non temo che le mie falcate si facciano più deboli e lente. Il rischio, semmai, è l’inverso: che io proceda troppo velocemente, per quel fenomeno (che non ha, credo, spiegazione logica), per il quale i ritorni sono sempre più brevi delle andate. Mi concentro. Stessi allunghi, stessi stacchi del tallone, stessa estensione del ginocchio: stessa quantità d’acqua sollevata, stessi spruzzi, stesso sciabordìo, stesso suono.
Una cosa è diversa, però.
Adesso che sto percorrendo l’itinerario a ritroso – sempre assecondando il profilo volubile della costa – ho il sole difronte; mentre invece, all’andata, lo avevo alle spalle. Poiché indosso occhiali da sole, la visione non risulta disturbata – non sono costretto, cioè, a strizzare gli occhi oppure a schermarli con la mano – però ne esce in qualche modo nuova, diversa. Le persone: sono sagome marrone scuro. Il mare: è una distesa a macchie metalliche. Le onde: si isolano dallo sfondo e sembrano avere volontà propria: corrono isolate le une dalle altre; all’andata, invece, avevo l’impressione di una massa ondosa piuttosto compatta che si srotolava, si frangeva, con una ripartizione interna: dita di una stessa mano, muscoli di uno stesso braccio, ossa di uno stesso scheletro. Adesso le onde sembrano animali vivi, ognuno con un proprio istinto e una propria direzione: che, per semplice caso, procede in accordo con le direzioni altrui.
Cammino, ed è una fotografia in controluce – che però vive.
Al minuto diciannove: appoggio il piede destro sopra un pezzo di vetro. Non lo avevo visto (impossibile vederlo, adagiato sul fondo). Lo sento penetrare la carne, poi uscire, poi il dolore. Mi fermo. Ruoto il ginocchio, sollevo il polpaccio, sollevo il piede. Afferro il piede con la mano destra, alzo gli occhiali da sole sulla testa, guardo: la pelle è strappata, ma non vedo sangue: il mare lo ha lavato via. Premo la pianta del piede alle due estremità, sento dolore: stavolta il sangue esce, mescolato all’acqua.
Al minuto ventitre: riprendo a camminare. Cammino cercando di non variare l’andatura, nonostante il piede ferito: il tallone appoggia pieno, e io sostengo il dolore. Cammino sapendo che il sangue continua a uscire: e che si mescola all’acqua, alle onde, al mare. Il mio sangue è un elemento estraneo e – a differenza dei piedi, dei polpacci, delle ginocchia – non ha nessuna necessità. È un elemento disturbante che io non posso in alcun modo escludere: camminare senza fare forza sul tallone, significherebbe modificare sensibilmente l’andatura, dunque lo spostamento d’acqua, dunque il suono, dunque l’intersezione con l’acqua spostata e con il suono prodotto – dalle onde. Cammino e il mio sangue esce: mescolandosi al mare, alle onde, all’acqua, diventando anch’esso elemento di intersezione.
Al minuto trenta: suona la suoneria del cellulare. Apro il marsupio. La silenzio. Mi fermo.
Saltello con il solo piede sinistro fino all’ombrellone. Mi siedo sulla sdraio, mi guardo: la ferita taglia trasversalmente l’intero tallone. Il sangue, adesso, esce nitidamente: rosso scuro. Prendo dal marsupio il pacchetto di fazzoletti, lo apro, prendo i fazzoletti uno per uno e li unisco a formare una pezza da premere sul tallone. Infilo pantaloncini, maglietta, calzini e scarpe. Mi alzo.
In farmacia, mostro la ferita. Sono fortunato: non è da punti. Mi danno del disinfettante, delle garze antisettiche, delle bende. Una pomata antibiotica, per precauzione. Chiedo se posso immergere il piede nell’acqua di mare.
Glielo sconsiglio, dice il farmacista, battendo lo scontrino.
Chiedo perché. Dico che una volta – quando ero piccolo, almeno – consigliavano sempre l’acqua di mare: per ferite, infezioni, problemi della pelle.
Glielo sconsiglio, ripete il farmacista, prendendo un sacchetto piccolo di plastica.
Ma perché, ripeto io.
Perché il mare non è più quello di una volta: dice, infilando i cerotti nel sacchetto, poi allungandomi il sacchetto, il farmacista.
[Nell’immagine: Piet Mondrian, Composizione n. 10 in bianco e nero (molo e oceano)]