Dal video di Heider e Simmel: un’immaginazione e una descrizione
Il video
L’immaginazione
Lui ci aspettava. Aveva chiuso la porta, perché non lo vedessimo: ma sapevo che era lì. Ho detto al bambino di stare lontano: mi ero già pentita di averlo portato, però avevo promesso e poi, se anche non avessi promesso, se anche io non mi fossi presentata, o mi fossi presentata da sola, senza il bambino, lui avrebbe trovato il modo. Ci avrebbe trovati: io di questo sono sicura. Il bambino piangeva: ma io non potevo consolarlo. Dovevo prima di tutto mantenerlo al sicuro, mantenerci al sicuro e in questa ricerca di sicurezza, sua e mia, non era prevista consolazione. Ho controllato con cura, tutto intorno al giardino: e mi pareva tranquillo, mi pareva come se non fosse successo niente e come se non dovesse succedere nient’altro. La bicicletta era al suo posto e il manubrio diritto, intatto, le cromature lucidate: nessuna traccia di fango, anche il bastone era scomparso. Non ho cercato il sangue, perché non lo avevo visto neppure il giorno prima (non avevo voluto vederlo). Poi lui ha aperto la porta. Ho gridato al bambino di stare calmo e di non avvicinarsi. Aveva incominciato a piangere e io gli ho gridato no, non piangere, cazzo, se piangi è peggio, a piangere fai solo peggio. Ma il bambino piangeva. Lui ha detto vieni, non ti faccio niente, non vi faccio niente. Per un momento ho desiderato fidarmi: tutta la sera prima e la notte, anche, mi ero concentrata, avevo fatto una specie di esercizio, come un allenamento – non credergli, qualunque cosa dirà non credergli – mi ero ripetuta questa frase per tutta la notte, perché sentivo la paura che mi strozzava la gola e il bambino che piangeva e se filavo dietro al bambino, alla paura, al mio desiderio, era finita. Però lui si è avvicinato – vieni, non ti faccio niente, non vi faccio niente – e io ho desiderato che fosse vero, oh, se fosse tutto vero! se non fosse esistito nulla, la bicicletta, il fango, il giorno prima, il sangue sul bastone (ma quello non c’era stato per davvero, io non lo avevo visto, non avevo voluto vedere!). Lui mi ha abbracciato e io mi sono lasciata abbracciare. Poi è arrivata la prima sberla. La seconda. Ho serrato la mandibola. Ho sentito il sangue uscirmi dall’interno, dalla gengiva, e bruciava, sapeva di metallo fuso, era come se un cucchiaino mi si stesse fondendo in bocca. Ho sputato per terra, saliva rosso chiaro. Lui ha colpito ancora, e stavolta mi ha preso di sbieco, sulla spalla, e ha fatto un po’ meno male. O forse ero io, che avevo incominciato a farci meno caso, al male, era più che altro un ronzìo, quello che mi prendeva alla testa, come un vociare di voci confuse. Ho cercato il bambino: e non c’era, dietro di me, attorno a me, non lo vedevo da nessuna parte. Lui mi ha spinta contro il muro, mi ha presa per un braccio, ha storto il braccio, diceva delle cose – puttana, forse, oppure ti amo, non ricordo – e a volte mi cercava con la lingua, a volte mi colpiva con il ginocchio, premeva il ginocchio qui, appena sotto lo stomaco. Ho avuto lo stimolo di vomitare, ma non ho vomitato, forse perché al mattino non avevo mangiato niente, avevo lo stomaco chiuso, grazie a dio che non ho mangiato niente, ho pensato, così adesso non mi vomito addosso. Ho girato la testa di lato e il bambino, che non avevo più visto, stava contro la porta: era scappato, si era nascosto nella casa, ci guardava dalla porta socchiusa. Che imbecille, ho pensato, tesoro mio imbecille, dovevi correre verso la strada, chiamare qualcuno, non nasconderti dentro la casa. Dovevo mantenerlo al sicuro, a ogni modo. Mi sono divincolata, sono caduta a terra, mi mancava la forza nelle gambe, le gambe non mi reggevano, io non mi reggevo. Non sentivo neanche più le braccia: solo la stretta della sua mano, come se ci si fosse tatuata sopra, all’altezza del polso. Mi sono mossa sulla terra, strisciando, come fanno i lombrichi senza braccia né gambe, i lombrichi che sono solo corpo. Ho portato il mio corpo a lato della casa, verso sinistra, speravo che lui mi seguisse, speravo di allontanarlo dal bambino. Dove lo hai nascosto, ha gridato lui, dove cazzo lo hai nascosto! Non lo so, ho gridato io, forse è scappato, forse se n’è andato. Dimmi dove lo hai nascosto, ha gridato ancora, e intanto correva attorno alla casa, avanti e indietro per il giardino, cercando. Mi sono levata la maglia (avevo la schiena appoggiata al muro, adesso, le scapole contro le scaglie secche dell’intonaco) e ho levato anche il reggiseno, sono rimasta nuda sulla parte di sopra e gridavo vieni, vieni qui, lascia stare il bambino. Ma lui aveva capito. Ha aperto la porta. La ha chiusa. Il bambino ha fatto un unico grido, come di un uccello selvatico. Sembrava venisse dal bosco, invece veniva da dentro la casa, da quello stesso muro che mi premeva contro le scapole. Tesoro mio imbecille, ho pensato, adesso preparati a ricevere il male, tesoro mio, preparati. Ci sono stati dei rumori, poi, e il bambino che scappava, che correva dentro la casa, con le scarpe da ginnastica dalla suola silenziosa (che gli avevo comperato): ma io lo sentivo, che calcava il pavimento e mi pareva di sentire anche il respiro, attraverso la casa. Piano piano mi sono alzata, ma sempre tenendo la schiena contro il muro, per non cadere. La testa mi girava, il sangue mi colava dalle gengive giù fino in gola. Ho tolto le scarpe e i calzini per restare a piedi nudi, per sentire l’erba sotto la pianta e il calcagno: l’erba era fresca e mi dava come una specie di energia o di piccola scossa, non so, e mi aiutava ad andare avanti. Ho aperto la porta, il bambino mi ha visto, ha corso, ho chiuso la porta. Ho cercato la chiave, ma la chiave non c’era, pensavo di averla in tasca e invece no, forse era caduta durante le botte o forse la avevo lasciata in albergo, la mattina, al momento di uscire. Ho battuto su le imposte, ho chiuso con il chiavistello: per quel che può durare, ho pensato, e intanto, scappa! scappa! gridavo al bambino, e quello correva ma non scappava, piangeva e girava in tondo, tutto in tondo al giardino, sembrava che avesse una possessione addosso, io gli gridavo scappa! scappa nel bosco! ma lui niente. Ho cercato di prenderlo, tesoro mio lasciati prendere, tesoro mio imbecille, ma il bambino mi sgusciava da tutte le parti come un pesce, sempre piangendo, gridando con un grido continuo. Poi la porta si è aperta e lui è uscito. Ho preso il bambino per un braccio (alla fine si è lasciato prendere) e l’ho trascinato via, attorno alla casa, correvo senza scarpe, tirandomi dietro il bambino per il braccio, e i sassi sparpagliati sull’erba mi tagliavano la pelle, ma quasi non me ne accorgevo. Sentivo solo la mano sudata del bambino, e gli urli (adesso intermittenti), e lui che cercava senza più neanche chiamare. E alla fine c’è stato solo il bosco: anche se non avrei dovuto, anche se avevo promesso. Il bambino non piangeva più. L’aria portava i rumori che venivano dalla casa: uno squarcio, qualcosa che cadeva in pezzi. Ci siamo seduti sull’erba, io e il bambino: avevo i piedi tutti piagati. Il bambino aveva le scarpe da ginnastica slacciate, ed erano tutte sporche. Cosa ci fai tu, qui, avevi promesso: ha detto, appoggiando la testa sulle mie cosce. Gli ho accarezzato il capelli sudati, mentre sentivo, contro la pelle, il suo cuore che rallentava. Sì, avevo promesso, ho detto. Mi dispiace.
La descrizione
Ci sono quattro figure geometriche in uno spazio bianco: un triangolo grande, pieno, scuro; un triangolo piccolo, pieno, scuro; un cerchio, pieno, scuro; e un rettangolo, bianco dal contorno scuro, con il lato sinistro aperto per metà. Il triangolo grande si trova inizialmente all’interno del rettangolo, che è posto sulla destra dello spazio bianco. Il triangolo piccolo e il cerchio si trovano inizialmente all’esterno del rettangolo, occupando la sinistra dello spazio bianco: il cerchio è fermo, il triangolo piccolo si muove disordinatamente. Il lato sinistro del rettangolo si apre per metà: il triangolo grande viene portato all’esterno. Nello spazio bianco, il triangolo grande e il triangolo piccolo compiono movimenti di avvicinamento e di allontanamento reciproci. Nel frattempo, il cerchio si porta all’interno del rettangolo: il lato sinistro del rettangolo si chiude. Ora il triangolo piccolo è posizionato con la propria base adiacente alla base del rettangolo, sempre all’esterno di questo. Il triangolo grande si avvicina invece al lato sinistro del rettangolo, che si apre: il triangolo grande si porta all’interno, il lato sinistro del rettangolo si chiude. All’interno del rettangolo, il triangolo grande e il cerchio compiono movimenti disordinati di avvicinamento e allontanamento. Nel frattempo, il triangolo piccolo si avvicina al lato sinistro del rettangolo, che si apre: il triangolo piccolo si porta sul margine in alto a sinistra del rettangolo, semiaperto, e viene raggiunto dal cerchio. Il rettangolo piccolo e il cerchio si portano all’esterno del rettangolo: il lato sinistro del rettangolo si chiude. Il rettangolo piccolo e il cerchio, alla sinistra dello spazio bianco, compiono movimenti disordinati di avvicinamento e allontanamento. Il lato sinistro del rettangolo si apre, e il triangolo grande esce, unendosi ai movimenti delle altre due figure. Ora il triangolo grande, il triangolo piccolo e il cerchio si muovono attorno al rettangolo, rimasto con il lato sinistro semiaperto. Poi, il triangolo piccolo e il cerchio si spostano in alto, uscendo dal campo visivo. Il triangolo grande si porta nuovamente all’interno del rettangolo, spezzandone una parte del lato sinistro e una parte della base superiore, e allontanando da sé i pezzi.
Il video a partire dal quale ho creato questi due brevi testi è stato realizzato nel 1944 da Fritz Heider e Marianne Simmel.
In un esperimento, Heider e Simmel lo hanno mostrato a trentaquattro studentesse, chiedendo poi di descriverlo. Tutte le studentesse tranne una, hanno prodotto una immaginazione che attribuiva a ognuna delle figure geometriche una identità, un sesso, dei sentimenti, delle intenzioni: il triangolo grande è stato spesso tratteggiato come un uomo aggressivo, violento, collerico; il triangolo piccolo come un uomo buono, coraggioso, altruista; il cerchio come una donna timida, passiva, bisognosa di aiuto (in questo senso, la mia immaginazione si discosta un poco: il triangolo grande è un uomo, prevaricatore; il triangolo piccolo è una donna, prevaricata; il cerchio è un bambino). Una sola studentessa ha descritto il video in termini puramente geometrici.
Quando un cliente mi chiede: perché dovrei investire tempo e risorse per creare una storia al posto di una semplice descrizione dei miei prodotti? La risposta più semplice (e più veritiera) che mi vien da dare è: perché, semplicemente, non se ne può fare a meno.