Valentina Durante – Copy & Story | Demetrio Paolin, Lo stato dell’arte e Conforme alla gloria
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Demetrio Paolin, Lo stato dell’arte e Conforme alla gloria

“Ho voluto mostrarti una cosa che non so più se ho voglia di fare”.

Così Demetrio Paolin introduce i due brevi racconti – L’ospite e Il quadrato nero di M. – che compongono Lo stato dell’arte, raccolta uscita per Autori Riuniti all’inizio di giugno. E Il quadrato nero di M., il secondo e il più breve dei due pezzi, rimarca il concetto aprendo con uno schietto: “Non ho più voglia di scrivere”. Con questa struttura circolare e conchiusa – un testo argomentativo all’inizio e un testo finzionale alla fine, entrambi a rimarcare un non possumus – la questione sembra assumere una certa inossidabilità e il libretto un tono da reale (o perlomeno realistico) congedo. Ma è davvero così?

Lo stato dell’arte esce a tre anni da Conforme alla gloria. Conforme alla gloria è un’opera importante: lo è per dimensioni, respiro, potenza e profondità, ma lo è anche (e questa è, beninteso, una mia immaginazione) per ciò che ha rappresentato nella vita dell’autore lungo l’intero suo farsi. Otto anni di lavoro per le varie stesure più – e continuo a immaginare, supporre – una certa quantità di tempo per la gestazione mentale. Questo io lo chiamo mettersi a servizio, e farlo per un periodo lungo ha un certo costo in termini materiali, sociali, fisici. Richiede una grande disciplina di sé.

Che all’uscita di Conforme siano seguiti due anni di stasi narrativa in cui Paolin ha scritto non “opere di immaginazione, ma cose più spurie” appare comprensibile, tanto più che questo non scrivere si è limitato alle sole opere di pura finzione.

Quando ho preso in mano Lo stato dell’arte non sapevo bene cosa aspettarmi.

Ho letto i racconti una volta, poi una seconda, poi una terza. In testa, sentivo risuonare qualcosa avente il timbro di un dubbio, di un sospetto. Allora ho preso dallo scaffale la mia copia di Conforme alla gloria e sono ripartita dalla donna con la bocca piena di pane.

Su Conforme alla gloria al tempo non avevo scritto nulla se non una impressione, brevissima, quando ancora stavo a metà del libro. Mentre leggevo avevo la forte sensazione di trovarmi difronte a un’opera necessitata. Sì, non solo necessaria, ma necessitata: Paolin aveva determinate cose da dire e l’unica forma plausibile era quella che lui aveva scelto. Leggendo, mi succede spesso di pensare che quella storia potrebbe essere scritta in un altro modo e in un altro modo ancora. Questi modi altri provo a figurarmeli per esercizio: il come lo avrei fatto io. Nel caso di Conforme alla gloria questo non è mai successo: l’opera mi appariva perfetta per il suo aver raggiunto, attraverso la forma, una inevitabilità. Assistevo all’inverarsi inevitabile delle intenzioni dell’autore.

Ma era un pensiero troppo esile per scriverci un testo: era come aver sfiorato qualcosa con le mani, e al primo tentativo di afferramento averlo sentito sgusciare via. Dopo aver letto Lo stato dell’arte la mano ha di nuovo tentato la presa e fra le dita, stretto nel palmo, quel qualcosa stavolta è rimasto. Provo a porgerlo così com’è: non un ragionamento a lungo meditato, ma un appiglio.

La prima assonanza fra le due opere è tematica: in entrambe abbiamo un artista che fa performance art, e nello specifico quel genere di performance che si serve del corpo. In Conforme alla gloria gli artisti sono due: uno consapevole e dichiarato, Enea Fergnani, e uno dissimulato nella veste di colui che porta testimonianza: Rudolf Wollmer. Anche ne Lo stato dell’arte gli artisti sono due, e anche qui abbiamo, in un fedele rispecchiamento con Conforme alla gloria, l’artista consapevole e dichiarato – Max (L’ospite) – e l’artista dissimulato o reticente – il Demetrio Paolin finzionale che ne Il quadrato nero di M. inventa una storia il cui fulcro è una sorta di performance art. In Conforme alla gloria il centro della performance è, in entrambi i casi, il corpo di una modella: una modella inconsapevole per l’artista dissimulato (la prigioniera tatuata che diventerà il quadro trovato e poi esibito da Rudolf), e una modella consapevole per l’artista dichiarato (Ana, che accetterà di farsi tatuare e di esibirsi per Enea). Ne Lo stato dell’arte abbiamo un rispecchiamento doppio, con una doppia correzione: L’ospite ci propone una fusione fra artista e modello, in una scena del tutto speculare al suicidio di Ana. Il quadrato nero di M. mantiene invece la separazione fra artista e modella, ma finisce per obliterare sia questo che quella, con il rifiuto di volerne scrivere.

Se tutto ciò vi sembra pedanteria, conservate del precedente paragrafo un solo concetto: ne Lo stato dell’arte Demetrio Paolin ha creato, in uno spazio ridotto, una sorta di specchio di Conforme alla gloria. E però uno specchio deformato, perché da un lato ci propone un ricongiungimento, dall’altro lato sceglie la cancellazione.

Questo lo desumiamo dalla storia. Ma Forster ci diffida dal fare uso della storia come strumento principe per penetrare la complessità e la bellezza di un romanzo e dunque noi, non volendo narrare “a tiranni e selvaggi”, cercheremo di andare oltre. Cercheremo cioè di scavalcare il cosa – l’artista, il corpo come opera, l’estremizzazione dell’opera che si conclude con la morte del corpo – per parlare del come. Di questo come a me premono due aspetti: il nitore della lingua e il bagaglio figurale.

Sia in Conforme alla gloria che ne Lo stato dell’arte, Demetrio Paolin fa uso di una lingua limpida, fattuale e scarna. A tratti volutamente dimessa. È una lingua che sembra concretare, nelle intenzioni, quella commistione di gravitas e humilitas che è caratteristica, così ci dice Auerbach, dei testi biblici e in generale dello “stile cristiano”, “soprattutto nell’incarnazione e passione di Cristo”. Tematiche grevi come quelle trattate da Paolin – la colpa, la morte, il male, il rapporto fra vittima e carnefice, la nullificazione della speranza – potrebbero indurre altri autori alla tentazione dello stile enfatico e ridondante. Paolin non scivola mai. Non lo fa, credo, perché consapevole di uno dei rischi del massimalismo: il depotenziamento della materia. Quando eccede, la lingua può produrre una devitalizzazione della parola. La parola si tende fino al parossismo, allo scoppio, e il risultato è il suo diventare niente. La lingua nitida e precisa arriva a incidere la materia solo e soltanto nel punto in cui deve. Una lingua così, la lingua di Demetrio Paolin, non si limita semplicemente a dire. Intende testimoniare.

Sia il vostro parlare sì, sì; no, no.

E testimonianza è la parola che vi chiedo di ricordare.

Seconda similarità pertiene all’aspetto figurale del testo: sia in Conforme alla gloria che ne Lo stato dell’arte Paolin fa ampio uso di metafore che pescano dal mondo animale. Mattias è “il giovane torello”. Laura “ricorda un topo grazioso”. I soldati dell’Armata Rossa, murati nella baracca e lasciati a crepare di fame, levano grida “che parevano strepiti e versi di uccelli”. Gli esempi sono moltissimi e raccogliendoli tutti noteremmo che Paolin fa uso del mondo animale in un modo che, dal punto di vista etico, è indifferente o neutro.

Per chiarire cosa intendo devo raccontare un fatto.

Circa un mese fa, guardavo con mio figlio un documentario sui leoni. A mio figlio i documentari piacciono e, come spesso succede ai bambini, gradisce particolarmente quelli con animali feroci e maestosi – tigri, leoni, ghepardi, squali eccetera. Guardiamo dunque la vita di questo gruppo di leoni – caccia, corteggiamento, accoppiamento, la leonessa che si isola in cerca di una tana dove partorire, nascita dei piccoli, accudimento, I leoncini sono bellissimi, vero mamma? Bellissimi, sì, feroci ma teneri – finché accade il dramma: le iene aggrediscono la cucciolata. È notte, la leonessa coraggiosamente combatte, i leoncini si salvano ma uno di loro resta ferito. E la madre lo ripudia. Comincia a negargli il latte, lo allontana con la zampa ogni qualvolta lui si avvicina, fa spostare il branco anche senza motivo cercando di seminarlo (lui, ferito, cammina a fatica). Passano i giorni e il leoncino è sempre più debole, disidratato, affamato, sfinito e mentre il commentatore spiega la normalità di tutto ciò nel mondo animale – la madre cerca di sopprimere l’elemento più debole per garantire maggiori possibilità di sopravvivenza agli altri –, tu non riesci a non provare un dolore sordo, e un moto di ripulsa per un atto che per noi umani andrebbe contro ogni etica, o apparterrebbe a un’etica giudicata oggi, almeno da noi occidentali, immorale. E ti chiedi se andrà a finire così, se il regista (non la leonessa) lascerà morire sotto gli occhi degli spettatori il leoncino. Pausa pubblicitaria e ripresa della trasmissione, con il commentatore che annuncia soddisfatto: il leoncino ce l’ha fatta. Il suo perseverare ha avuto successo e la madre lo ha riaccolto nel branco. Sollievo mio, sollievo del figlio, ma da parte mia una domanda nel silenzio: se il leoncino fosse morto, il regista avrebbe corso il rischio di mandare in onda il dis-umano epilogo?

Demetrio Paolin il rischio lo corre. Il suo utilizzo della metafora animale è indifferentemente positivo o negativo, e l’unione di questa positività con questa negatività sfocia in un carattere del tutto neutrale. Torniamo alla già citata scena dei soldati sovietici murati vivi nella baracca:

“[…] come le blatte che si mangiano le une con le altre, così i russi allo stremo avevano iniziato a mangiare i compagni.

[…]

Poi, dal fondo della baracca esce una nenia: è un corpo ancora vivo. Vasilij sa di piscio e di merda. La sua magrezza mostra le vertebre della spina dorsale e le costole. La schiena è il dorso di un insetto. Anche gli occhi sono diventati quelli di una mosca. Immobili e neri. Qualcuno gli rivolge la parola. Lui continua con il suo cicaleccio noioso”.

Non c’è nessun plauso o condanna morale, né nell’essere blatte che si divorano l’un l’altra, né nell’essere riusciti a sopravvivere ai nazisti come un insetto. Gli occhi di mosca sono neutri. Immobili e neri, ma neutri. Il cicaleccio è neutro: può essere noioso in quanto nenia, ma non è né bene né male. Non c’è ferinità, perché ogni ferinità rappresentata dagli uomini facendo uso delle bestie è sempre ferinità umana, l’uomo dice se stesso attraverso la bestia ma così facendo non dice più la bestia, la nega.

Questo movimento dall’animale all’uomo e dall’uomo all’animale, come se il corpo di Isacco si trasformasse senza sosta nel corpo del montone e il corpo del montone nel corpo di Isacco, attraversa Conforme alla gloria dal principio alla fine. E ne L’ospite il movimento, il ritmo sinusale, trova ricomposizione. L’ospite è una volpe. Max, l’artista, diventerà volpe, regredirà o evolverà fino a essere cosa naturale, o semplicemente cosa, così come Ana in Conforme alla gloria non è più corpo ma pelle, e in quanto pelle disincarnata, oggettificata, è cosa anch’essa.

“Un animale stupendo. Nel vederla mi sono commosso, mi sono sentito parte di qualcosa che fino ad allora mi era sembrato precluso”.

E qui sta tutta la perfezione del titolo: l’ospite è Max stesso che nel perdere umanità – tratti umani, comportamenti umani, ogni normalità sociale – diventa ciò che lui aveva sempre desiderato essere: una cosa vuota. E in quanto ospite si trova temporaneamente ad abitare questo se stesso come cosa vuota.

“[…] più usava il suo corpo, più lo corrompeva con azioni, messe in scena, violenza, più dentro di sé sentiva crescere un vuoto e il suo interno si faceva cavo”.

Ciò che è vuoto è neutro, indifferente: può ospitare Max così come chiunque altro. Solo la cancellazione di sé diventa possibilità per un riempimento.

Stiamo toccando, credo, il nòcciolo della questione. Stringendo quel pensiero prima solo sfiorato, penetrandolo con le dita e spingendo, cercando, abbiamo forse raggiunto il cuore.

Conforme alla gloria è stato descritto in molti modi: come un romanzo sulla colpa irredimibile, sull’ossessione, sul corpo, sul peso dell’eredità, sull’inevitabilità del male, sulla necessità e sul giogo della memoria. Pur condividendo tutte queste interpretazioni io penso, e lo penso da quando ho letto Lo stato dell’arte, che Conforme alla gloria metta in scena una tensione: quella fra distruzione e dono.

Quando distruggiamo, priviamo qualcuno di qualcosa.

Quando doniamo, arricchiamo qualcuno di qualcosa, privandocene.

Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo”. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio”. (Matteo 26,26-29)

Per donare, Cristo ha dovuto privarsi del suo stesso corpo e l’offertorio celebra la ricomposizione fra distruzione e dono. Nell’offertorio c’è testimonianza: Cristo dice: “mi sto privando di me stesso per voi”. Anche ne Lo stato dell’arte c’è testimonianza: Max, dopo essersi sacrificato per dare vita alla sua opera, scrive a Hans, il suo agente, gallerista, ufficio stampa, migliore amico. Parla, testimonia: mi sono offerto. Io non berrò più, ma voi prendete e bevetene tutti. Conforme alla gloria è fitto di distruzioni che diventano doni o di doni che si rendono possibili grazie a una distruzione. Rudolf si libera della casa e dei mobili del padre – li distrugge metaforicamente, cancellandoli dalla sua vita – ma accetta il dono del quadro. Lo offre al pubblico, donandolo. Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, il vostro corpo, il corpo della Germania. Laura, moglie di Rudolf, vorrebbe distruggere il quadro ma non lo fa. E quando, anni dopo, ormai separata dal marito e con una vita diversa, s’imbatte nelle foto del corpo di Ana dipinto e riconosce i disegni del quadro, scrive all’ex marito. Laura poteva tacere, poteva distruggere; ma accetta di fare dono. Christine, personaggio all’apparenza minore, si piega al divieto dei genitori e alla sua propria paura: non vedrà più Mattias. Distrugge così la loro relazione. Anni dopo, però, darà a suo figlio il nome di Heinrich, facendo a Mattias il dono della possibilità: liberarsi del passato resta, nonostante tutto, pensabile. Enea, tatuando Ana, distrugge il corpo di Ana e Ana stessa, e in questo modo fa dono della colpa e della memoria della colpa. Ana si uccide, si distrugge, ma questo le permette di far dono di sé; e anche lei, come Max, racchiuderà la sua forza donatrice nell’atto di scrivere a colui che si prenderà cura dell’opera. Un Hans, guarda caso.

“Ti affido il mio corpo, tu che hai provato per lui la più profonda devozione

[…]

Fai dei miei disegni quello che ci siamo detti […]”

Il gesto di Ana riverbera nel gesto di Max, ma solo ne L’ospite – forse per la sua concisione, forse per la sovrapposizione fra artista e modello, forse per il risalto dato alla fase di preparazione in cui Max si trasforma in vuoto, in cosa – l’atto testimoniale emerge con particolare vividezza.

Quello che segue è un passo dal primo capitolo de I mistici musulmani, di Marijan Molé.

“L’uomo perfetto” si dice, parafrasando il contenuto del Libro dei gradi, “ha abbandonato tutto, non ha neanche un giaciglio. Si è affidato interamente a Dio e vive della più rigorosa castità. Si considera il peggiore degli uomini, si mescola alla gente, è tutto insieme a tutti, senza giudicare nessuno. Avendo rinunciato a tutto, non pensa ad altro che a Dio. Lo Spirito Santo, il Paracleto, viene allora ad abitare in lui ed egli ritrova la perfezione posseduta da Adamo prima della caduta.

[…]

La Scrittura contiene due tipi di prescrizioni: quelle della giustizia e quelle della perfezione. I deboli, che sono come i bambini, devono seguire le prime, che sono per loro come il latte materno. Essi perdoneranno ai loro nemici, offriranno elemosine, avranno una sola moglie, eviteranno il contatto con i malvagi e osserveranno certe prescrizioni alimentari: è la legge seconda, che fu data ad Adamo dopo la caduta. Ma i perfetti condurranno una vita puramente spirituale; ameranno tutti, amici e nemici, entreranno ovunque e saranno tutto insieme a tutti. Spogliati di tutto, non offriranno elemosine visibili – poiché non possiedono nulla –, mangeranno qualsiasi alimento e osserveranno una rigorosa castità. La legge della giustizia è sufficiente per la salvezza postuma, ma solo l’osservanza della regola della perfezione permette di ottenere l’inabitazione dello Spirito Santo e di attingere, dopo la morte, un grado più elevato”.

Cos’è Max se non un tentativo di perfezione? E Rudolf? E Ana, che nella sua accettazione di diventare opera e cosa, rinuncia a una vita normale, a una vita buona e giusta come donna e come madre?

Nell’ultima intervista rilasciata a un finzionale Covacich, Enea commenta il suicidio di Ana con una freddezza che parrebbe in-umana o dis-umana. Enea è l’uomo che dice di sé: “Io sono tutta superficie. Cosa posso nascondere? Io sono così, se qualcuno mi guarda nel profondo non vede niente. Io sono il niente del mio corpo”. Sembra a me che, come il perfetto, come colui che rifiuta la legge di giustizia per abbracciare la legge di perfezione, Enea dica: Io non ho niente di mio perché sono cavo, sono completamente vuoto. Posso solo essere abitato, riempito.

E Max che vuole ingoiare la luce come un buco nero, che vuole farsi abitare dalla luce, che può farsi succhiare il cazzo da una contadina o da una puttana o da nessuna, Max è lo stesso: non è che involucro, pelle oggettificata. Colui che entra ovunque e che è tutto insieme a tutti.

Perché questi personaggi disturbano? Perché la scrittura di Paolin disturba? Non per la rappresentazione della devianza o per le scene di violenza o di sesso e neppure per tutta la disperazione, questa cappa di non-salvazione che sembra opprimere i suoi testi. No. Demetrio Paolin disturba perché riesce, osa fare sulla religione un discorso mistico. È questo a determinare un problema. Noi possiamo accettare sulla religione un discorso etico, al quale aderire oppure da confutare e ricusare, ma renderci conto che la religione è, prima di tutto, un discorso mistico ci terrorizza. È come la leonessa che cerca di sbranare il più debole dei cuccioli: l’imporsi di una gerarchia in cui l’aspetto morale viene in secondo piano ci fa dubitare della nostra capacità di vivere insieme, sensatamente, come uomini e donne di “buona volontà”, gonfi di giustezza. E invece per la perfezione, dice la scrittura di Paolin, per questo dare testimonianza, per questo dire sì sì; no no, occorre essere vuoti, farsi ricovero.

“Qualsiasi suo gesto non ha più nessuna aderenza con l’umano. Max vuole essere un ricovero per le zecche, per le pulci e i pidocchi, vorrebbe essere una corteccia d’albero, un sasso o uno strato sottile di argilla”.

Ed ecco che questa comunione con l’animale, poi col vegetale, poi col minerale e via così, a scendere lungo i rami della tassonomia per arrivare all’inorganico o al granello di polvere, questo mettersi in comune è la forma suprema dell’amore. Non l’amore erotico, non eros, ma agape. L’amore che non interviene fra esseri umani, fra simili, ma l’amore come spinta a elevarsi verso Dio per ricostruire l’unione mistica che trova il suo punto di avvio, il suo sgorgare, nell’amore di Dio per tutte le creature.

L’unico amore capace di abbracciare e dare senso al destino creaturale dell’uomo.

Un amore che abbraccia indistintamente, un amore-luce.

“Ora io vivo nella fede che esista un paradiso; e che questo paradiso sia il trionfo della vegetazione, in cui io e te, gli uomini tutti scompariremo”

Cosa succede quando si scompare? Quando il corpo non è visibile?

Nei secoli, l’arte ci ha mostrato il corpo di Cristo in molti modi. Ce lo ha reso guardabile e tangibile come promessa – l’Annunciazione – e come Profezia e attesa – L’Ecce Agnus Dei di Giovanni Battista, il Precursore. Ce lo ha fatto vedere nella nascita, nella presentazione al tempio, nel battesimo, nel primo miracolo e sulla croce, morto, compianto, oppure solo, o nella Gloria. Abbiamo visto il Gesù Buon Pastore, il Gesù Maestro, il Gesù Pantokrator, il Gesù Redentore. Ma non abbiamo mai visto o letto di Gesù dentro il sepolcro. Il sepolcro è l’innominabile e l’innominato, ciò che non possiamo penetrare neppure con l’immaginazione. È il masso fatto rotolare contro ciò che non possiamo dire. Il sepolcro è il vuoto che accoglie, è il nulla.

Pascal ci parla così di questa invisibilità del sepolcro:

Gesù Cristo era morto, ma visibile, sulla croce. È morto e nascosto nel sepolcro.

Gesù Cristo è stato sepolto solo da santi.

Gesù Cristo nel sepolcro non ha fatto nessun miracolo.

Solo dei santi vi entrano.

Là Gesù Cristo prende una nuova vita, e non sulla croce.

È il supremo mistero della Passione e della Redenzione.

Gesù Cristo sulla terra non ha avuto dove riposarsi, se non nel sepolcro.

I suoi nemici hanno cessato di tormentarlo solo nel sepolcro.

Là, l’artista – quest’uomo che nel tentativo di creare sperimenta l’illusione di poter essere Dio – prepara una vita per la sua opera, in questo universo “infinito ed esausto” ma comunque infinito.

Con questi ultimi due racconti, Demetrio Paolin dà testimonianza di una fine, sono la sua “dichiarazione di resa”. A questa resa segue la noia, il vuoto, l’immobilità, il sasso. Segue Dio, che “non è luce, non è movimento, non è azione”, esattamente come il Cristo morto dentro il sepolcro. Ma dentro la sua bocca che è nera e vuota come un quadrato, in questa bocca in cui Dio inghiotte se stesso, qualcosa nascostamente succede.

Io non credo che Lo stato dell’arte sia il congedo di Demetrio Paolin dalla scrittura di finzione. Io credo sia il congedo dalla finzione di Conforme alla gloria.

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