Claudia Grendene, Eravamo tutti vivi
Era l’estate del 2014. Jennifer Brook, designer a Dropbox, ha cominciato a collezionare i colori della terra. Ha girato in auto gli Stati Uniti, la Spagna e il Portogallo raccogliendo campioni sul ciglio della strada: da questi estraeva il pigmento. Jennifer ha scoperto che la terra non contiene, ma è moltissimi colori. Che i cosiddetti “colori terrosi” – marrone, ocra, rosso – sono solo una piccola parte: la terra è fatta anche di verdi, di viola, di azzurri, di rosa chiarissimi. È un vestito di Arlecchino, nascosto sotto il mantello del luogo comune o della prima impressione o del non saper vedere.
È un periodo che non leggo. Che non scrivo. È anche un periodo in cui mi succede spesso di star sveglia la notte. In una di queste notti, infrangendo una regola che si è fatta da sé, ho letto “Eravamo tutti vivi” di Claudia Grendene, appena uscito per Marsilio.
L’ho letto tutto d’un fiato, senza riuscire a staccarmi e mentre leggevo pensavo che non era davvero il momento giusto, per me, di leggere un libro come quello, e che proprio per questo era forse il momento più perfetto. Ma ho pensato anche a Jennifer Brook, e ai suoi viaggi in cerca del colore.
Questo romanzo – nonostante i fallimenti, le morti, le disillusioni – è colore, ho pensato.
È colore perché.
Per il coraggio, anzitutto. Claudia è al suo esordio: eppure in questo primo romanzo non si aggrappa all’invadenza accogliente del narratore in prima persona ma sceglie di narrare in terza. E una terza vera, senza paracadute, non una terza finta, di quelle con la macchina da presa appollaiata sulla schiena di un unico personaggio. Con un narratore in prima, con facilità riesci a supplire ai difetti di costruzione. Il narratore in terza, soprattutto nel modo in cui lo usa Claudia, non fa sconti. Ti toglie i vestiti, denuda tutto. Bisogna saperlo gestire.
È lo stesso coraggio che occorre per dipingere i muri di casa con qualcosa che non sia un bianco o un giallino o un azzurrino o un rosetto. La maggior parte di noi ha una educazione inadeguata sul colore (e sulla luce). E così ci convinciamo che i toni neutri siano più discreti e più chic. È più facile sbagliare con il colore che con il non-colore, con il narratore ipertrofico che con quello che lascia spazio alla storia. Claudia ha rischiato: passeggia attraverso il suo romanzo e i suoi personaggi con una sicurezza da scrittrice che è alla quarta, quinta esperienza di pubblicazione. Per un’esordiente è una dote rara.
C’è colore nella precisione. Claudia narra: e lo fa utilizzando una forma piana, sintetica e per nulla invadente. Non è istrionica e si mette a servizio della storia. Come se lei non esistesse? Tutt’altro: Claudia c’è in ogni scelta lessicale, che è sempre precisissima. Di ogni significato, Claudia distilla il significante vero e necessario, così come Jennifer Brook distilla il colore vero dalla terra, senza limitarsi a dire “è marrone”. Nella lingua usata da Claudia non ci sono solo marroni: e se un rosso è un carminio, lei lo chiama carminio e in nessun altro modo. Anche qui, ci vuole grande sapienza: non ci si inanellano parole e sinonimi sperando di andare a segno almeno con uno.
E infine c’è colore nel montaggio. “Eravamo tutti vivi” è un romanzo dal montaggio complesso, dove passato e presente si intersecano in continuazione, ma dove un filo conduttore è sempre conservato. Nella teoria dei colori (Itten docet) le cromie cambiano a seconda di come sono accostate fra loro. Un quadrato blu è un quadrato blu. Ma diventa un blu differente se il quadrato si trova all’interno di un campo rosso e un altro blu ancora se il campo in questione è grigio. Più chiaro, più scuro, più violaceo, più rossastro, il dove si trova influisce grandemente sul come è. In narrazione è lo stesso: il montaggio non serve solo a creare dinamismo, a rendere la fabula più interessante, intrecciandola: è funzionale alla restituzione complessiva del significato. Mescolare presente e passato vuol dire giocare con i campi rossi e i campi grigi, e il blu della trama cambia, si dinamizza, riverbera. Claudia lo fa con maestria e scegliendo soluzioni non semplici: il diario di Max, di primo acchito, sembrerebbe spezzare il ritmo diacronico e invece è il cerchio che chiude, alla fine, ogni cosa.
Questa non è, ovviamente, una recensione di “Eravamo tutti vivi”: non ho parlato della storia, dei personaggi, non ho parlato di niente. Ho voluto restituire una sensazione: che io, il mio corpo, ho avuto, leggendo quel romanzo difilato, in una notte.
Claudia ha detto di sé, in un piccolo pezzo scritto qualche tempo fa: “Vedevo le parole”. E io, leggendo le parole di Claudia, ho visto l’arcobaleno. Grazie.