Valentina Durante – Copy & Story | I romanzi di Laura Pugno: o dell’essere accanto
I romanzi di Laura Pugno cominciano con un’apertura
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L’immaginario narrativo di Laura Pugno

 

Samuel salì sulla piattaforma che sovrastava le vasche e aprì uno degli armadietti…” (“Sirene”)

Tessa aprì la porta nel buio del bosco…” (“La ragazza selvaggia”)

Salvo Cagli aprì gli occhi e il sole era accecante sull’acqua…” (“La metà di bosco”)

I romanzi di Laura Pugno cominciano con un’apertura: c’è qualcosa che si apre – armadietto, porta, occhi – e questo movimento, questo transitare da inaccessibile ad accessibile, dà inizio alla narrazione, a un concatenarsi di eventi che, nella prosa di Laura Pugno, è sempre molto serrato. Eppure questo aprirsi ha anche, a mio avviso, un valore metaforico: l’inizio della narrazione permette l’accesso ad altro: non solo a una storia, ma anche – e forse principalmente – a un mondo.

Si dice che ogni autore finisca, gira e rigira, per raccontare sempre la stessa storia. Che ogni artista abbia un certo numero di cose da dire e che tenda a reiterarle in diverse forme lungo tutto il suo percorso artistico: vuoi perché le cose stesse gli si chiariscono man mano scrivendo, vuoi perché, una volta chiarite, abbisognano di gusci differenti per essere porte, mostrate, spiegate a un pubblico. Che questo sia vero oppure no, si attaglia solo parzialmente ai romanzi di Laura Pugno: dove a rappresentare una costante non è tanto il cosa e neppure il come – la lingua, lo stile. È principalmente il dove: romanzo dopo romanzo, storia dopo storia, si ha l’impressione che l’intento dell’autrice sia quello di disvelare un territorio: sempre diverso eppure coeso. È così per “Sirene”. È così per “La ragazza selvaggia”. Mi domando se sia così per gli altri tre romanzi – anteriori alla “Ragazza selvaggia” ma posteriori a “Sirene” – che non ho letto. Ed è certamente così anche per questa sua ultima opera: “La metà di bosco”, uscito da pochi giorni per Marsilio. Con una differenza: se “Sirene” e “La ragazza selvaggia” erano parti di questo territorio, continenti di questo mondo di Laura Pugno, “La metà di bosco” è anche una mappa: permette di comprendere gli altri due, di dare un senso agli altri due. È come se nella “Metà di bosco” Laura Pugno ci facesse dono di una visione non solo attraverso, ma anche sopra, una visione a volo d’uccello. Nel corso della lettura ho avuto l’impressione, divenuta certezza alla fine (per quanto certezza personale), che una certa qualità geografica del testo mi permettesse di accedere anche a quella degli altri due. E ora, con questa mappa in mano, cercherò di tracciare alcune coordinate: il mio personale viaggio dell’anima come lettrice. Che mondo è il mondo di Laura Pugno?

È un mondo, anzitutto, orizzontale. In “La metà di bosco” troviamo questo isolotto, spopolato, mezzo riarso e mezzo boschivo, dove talvolta, non sempre, per lo più casualmente e senza nessuna certezza, i morti ritornano. E sono – questo è importante – non morti-fantasmi, non morti-proiezioni, non morti-immaginazioni, presenze di persone che sono state vive, ma corpi fatti di carne e sangue. Corpi che si possono vedere, toccare, con i quali è possibile fare l’amore e che, se feriti, hanno pelle e tendini che si lacerano.

Scrive Mircea Eliade nello “Sciamanismo e le tecniche dell’estasi”:

La «barca dei morti» ha una parte di rilievo nella Melanesia e nell’Indonesia, in relazione sia a pratiche propriamente sciamaniche, sia ai costumi e alle lamentazioni funebri. […] Il costume di esporre i morti nelle imbarcazioni potrebbe ben spiegarsi con dei vaghi ricordi di migrazioni ancestrali: la barca ricondurrebbe l’anima del morto nella patria d’origine, da dove vennero gli antenati. […] Credenze e pratiche funerarie analoghe si ritrovano fra i Germani e i Giapponesi”.

La barca dei morti non sperimenta né un moto ascensionale, né discensionale: l’anima non sale al Cielo (assieme agli dei o a Dio) e neppure agli inferi: ma si sposta in un luogo che è altro solo geograficamente, ma non gerarchicamente. Torna agli antenati. Torna a uno stato di cose primigenio dove l’umano e il divino e l’animale e il vegetale coesistevano così armonicamente da arrivare a confondersi.

È stato detto che i romanzi di Laura Pugno presentano una sorta di fantasia escapista destinata però alla frustrazione: c’è un mondo umano vessato da un qualche grado di degenerazione (il cancro nero in “Sirene”) o di insostenibilità (la routine ospedaliera di Salvo nella “Metà di bosco”) e, al contempo terribile e magnifico, un mondo regredito a uno stato selvaggio, non umano o dis-umano (“altre creature, suboceaniche, avrebbero dominato la Terra”, si legge in “Sirene”), che rappresenta però una prospettiva di salvezza o di sopravvivenza. Prospettiva che, alla fine della narrazione, viene però negata.

Ma questa visione dell’umano che anela al naturale è, a mio giudizio, solo parziale. Perché descrive un solo movimento: dall’uomo alla natura. Tessa che si isola nella riserva di Stellaria. Salvo che cerca una cura in un’isola spopolata dove i contatti con la civiltà sono resi via via più complicati.

Nei romanzi di Laura Pugno, invece, è presente anche il movimento inverso: dalla natura all’uomo. Del vegetale e dell’animale che imitano l’umano. A questo movimento si accede non attraverso la trama – quella famosa concatenazione di eventi – ma attraverso la lingua. La scrittura di Laura Pugno è un cristallo: tersa, precisa, mai intorbidita dall’accumulo, dal troppo. È la lingua della parola che dice la cosa e che non è mai ostentatamente evocativa. In una lingua così, gli spostamenti, i tropi, si notano subito. E nella “Metà di bosco” questa lingua fa studiato uso di metafore che descrivono il regno animale e vegetale usando parole umane: le correnti impazziscono; i paraggi di Krev sono massacrati dal vento; il viottolo si contorce sotto i passi di Salvo. Gli attributi dell’animato qualificano l’inanimato; quelli del vegetale, il minerale; quelli dell’animale, il vegetale, in una commistione fra i regni che è, appunto, testimonianza formale (s’intenda qui: attraverso la forma) di questa orizzontalità.

Nel mondo di Laura Pugno non vi sono separazioni: non si fugge, non ci si isola in uno stato di natura, non si regredisce – come Dasha nella “Ragazza selvaggia” – a uno stato animale, selvatico: perché si è già questo stato animale, si partecipa già di questa condizione selvatica: e il rito di iniziazione, che è presente in tutti i tre romanzi ma che in quest’ultimo è più scoperto, dichiarato, non serve a far diventare, bensì a far capire. E il rito, il viaggio, l’iniziazione, avvengono certo attraverso la storia, ma anche e specialmente (non va dimenticato che Laura Pugno nasce come poetessa) attraverso la lingua.

Così viene descritto, all’inizio della “Metà di bosco”, l’Ufficio del turismo:

L’Ufficio del turismo del porto era semichiuso, e dentro, dietro un vetro spesso ma percorso da una larga crepa obliqua…”

Poche pagine dopo, ecco come viene tratteggiata la fisicità di Petros:

Petros aveva sulla fronte una vecchia cicatrice biancastra che gli tagliava di netto le rughe…”

Non c’è differenza fra la crepa sul vetro e la crepa sul viso. Vetro e viso sono la stessa cosa. Animato e inanimato sono la stessa cosa.

Il mare si muove come un animale vivo. Il tronco dell’albero è un corpo, e il fico, ferito, spurga lattice come secrezione da un taglio.

La chora si era espansa e ora sembrava contrarsi su se stessa, come un corpo di animale da cui la carne è stata strappata, e che lascia vedere lo scheletro”.

In un mondo così, non è strano che Dasha viva come Astrid, la sua cucciola di lupo cecoslovacco (“La ragazza selvaggia”). Non è strano che Samuel monti e ingravidi una sirena (“Sirene”). Non è strano che Nikos faccia l’amore con Cora (“La metà di bosco”). In un mondo così non esiste il Cielo, non esiste il sotto-la-terra. Esiste la terra e il bosco e il mare: e tutto è corpo vivo.

Dove risiede, allora, l’inaccessibilità? Nel non-corpo, nel non tangibile. Nel divino inteso come totalmente slegato dall’umano, nel divino come trascendenza. Ricorrono spesso, nei romanzi di Laura Pugno, delle figure femminili splendenti. Sono donne esili, eteree, evanescenti.

Nina, nella “Ragazza selvaggia”: “Nicola era pazzo di lei come si può essere pazzi del sole. Perché Nina era così, splendente”.

Lili e Cora, nella “Metà di bosco”.

Dietro di lui era comparsa una ragazza con i capelli chiarissimi, di un biondo quasi bianco, e la pelle densa e compatta che Salvo associava a Lili e all’infanzia”. Cora sembra partecipare di una condizione altra e non umana. “Sembrava quasi, pensò Salvo, che non abitasse un corpo.” Non si possono toccare i non-umani e i non-umani non si lasciano toccare: e infatti di Nina in coma, mentre l’infermiera le lima le unghie, si dice: “Nina non avrebbe sopportato quell’intimità”.

Lo splendore di Nina e Cora è lo splendor inafferrabile del divino, manifestazione dell’ultraterreno che è possibile solo in un mondo caratterizzato dalla verticalità, da movimenti ascensionali e discensionali. Nel mondo di Laura Pugno l’incorporeo, il luminoso, il non partecipe della condizione dei tre regni contigui e mescolati – animale vegetale minerale – è nocivo. Questo parallelismo splendor-nocumento viene esplicitato fin dall’inizio in “Sirene”, con una frase che a me è parsa quasi programmatica, ma solo dopo aver letto “La metà di bosco”: “ora il sole sembrava voler divorare l’umanità come un dio maligno. Un dio azteco che chiedeva sacrifici”.

Il sole è buono quando perde il suo statuto divino: si addomestica, convive con gli uomini, agisce in armonia con i loro corpi. Quando non si limita a essere nella pelle, ma penetra nelle articolazioni. E forgia corpi di natura che diventano duri e abbronzati, asciutti e reattivi, con una qualità di terra e di roccia: come quello di Tessa, dopo i mesi trascorsi a Stellaria, e di Salvo, dopo la permanenza ad Halki. Per contro, la carnagione delle donne splendenti è pallida, lattescente, chiazzata da efelidi. Sono esseri destinati a non restare con gli uomini: non in quella forma, almeno.

Il mondo di Laura Pugno è un matriarcato. I maschi sono spesso costretti nella loro cerebralità, incapaci di vedere, esseri raziocinanti, espressione di una umanità che conosce se stessa solo parzialmente. Come Giorgio Held che, incontrate per la prima volta Nina e Dasha, le due gemelle, chiede di poterle separare. O come Salvo Cagli, che non comprende la sua insonnia misteriosa, pur se dovrebbe essere in possesso di tutte le conoscenze razionali per farlo.

Il percorso di iniziazione è spesso facilitato da una donna. Nella “Metà di bosco”, Magdalini è l’esempio più perfetto di questa figura femminile come spirito-guida: materno, terragno, che partecipa di un sacro immanente.

L’isola era un unico animale nelle cui vene circolava acqua di mare. Ora anche lui ne faceva parte, e Magdalini era una stella di mare, un predatore bellissimo sulla sabbia del fondo.”

Nella “Ragazza selvaggia” figure analoghe sono la zia Sagitta ma anche, in misura minore, la stessa Tessa. Sono donne dotate di una singolarità che però mai si trasforma in conclamata devianza (come è il caso di Agnese). Non sono eteree e respingenti come le donne luminose, le donne della verticalità divina e inattingibile, ma accedono al sacro del mondo orizzontale dove la luce convive con una certa quantità di buio: “Tessa spalancò la porta nel buio del bosco”. E Stellaria è una “zona d’ombra, un territorio cancellato dalle mappe”.

Ma è specialmente nella “Metà di bosco” che la dialettica tra luce e buio diventa tanto ricorrente da dar l’impressione che Laura Pugno scolpisca gli ambienti, le azioni, i corpi, manovrando abilmente questa alternanza.

Uscì di corsa dalla casa e lo vide, l’elicottero privato di Neumann che volava basso, le fiancate nero opaco colpite dal sole. Vide due figure nere a bordo oltre il pilota, i genitori di Cora, e appesa a delle corde, quasi bianca nella luce, la bara di Iordanis con il corpo della ragazza”.

Scorse qualcosa di più chiaro nel buio, che improvvisamente sparì, poi riapparve quando fu Nikos a mostrarsi”.

Salvo (è casuale l’assonanza con “selva”?) compie dunque il suo viaggio iniziatico. Che comincia con una forma abbastanza classica: la malattia.

Leggiamo sempre in Eliade:

Si è visto che le malattie, i sogni e le estasi più o meno patogene sono tanti mezzi di accesso alla condizione di sciamano. Talvolta queste singolari esperienze non significano altro che una “scelta” fatta dall’alto e valgono solo a preparare il candidato a ricevere ulteriori rivelazioni. Ma per lo più le malattie, i sogni e le estasi costituiscono in se stesse una iniziazione: vogliamo dire che esse vanno a trasformare l’uomo profano di prima della «scelta» in un tecnico del sacro.”

Salvo è medico. Ma lo è nella maniera razionale, in quella separazione raziocinante fra umano e tutto quanto il resto: la natura addomesticata, la morte da sconfiggere con la scienza, il dio irraggiungibile – se creduto – oppure inesistente o ininfluente. Alla fine del romanzo, Salvo è un medico completamente diverso. È un medicine man, un guaritore, un uomo che ha condiviso il cibo con i morti, che ha esercitato la ferocia di natura.

′È uno di noi‵ disse Neumann con voce ferma. ′E lo sei anche tu adesso. Se andassi via, e andrai via, sentirai sempre il desiderio di tornare‵.”

Si è ancora detto che le storie di Laura Pugno parlano di una perdita, temporaneamente sedata da una restituzione che in breve si rivela illusoria: acuendo ancor di più la percezione di mancanza, dunque di impotenza e fallimento. A una prima lettura, è realmente così. In “Sirene”, Samuel dà l’eutanasia a Sadako (perdita), illusoriamente si riscatta dando la vita a Mia (restituzione), ma Mia gli viene sottratta: e lui muore per consentirle di vivere. Nella “Ragazza selvaggia”, Giorgio Held perde il figlio abortito da Agnese, trova Nina e Dasha, ma finisce per perderle di nuovo entrambe. Nella “Metà di bosco”, Nikos vede morire Cora, la ritrova sull’isola dei morti, per poi perderla alla prima separazione.

Eppure io sono convinta che non di perdita reale si tratti. Ciò che a me sembra è che nei tre romanzi di Laura Pugno prenda forma un ritmo circolare, una sorta di recinto sacro, nel quale avviene, come detto, una iniziazione: di uno o più personaggi, ma anche del lettore stesso. E che questa iniziazione permetta di capire che la perdita, nel mondo orizzontale, non esiste, non si dà, perché tutto entra circolarmente in questa commistione di umano e non umano, di animato e inanimato, di animale e divino. Il seme e la carne di Samuel daranno origine a una nuova razza: Samuel è Mia e la figlia di Mia, è uomo e sirena, ma è anche mare scoglio plancton fanghiglia. Dasha (e Nina attraverso Dasha) torna al bosco: e, nella restituzione, lo stesso Giorgio Held diventa bosco terra roccia occhi di animale occhi di Dio delle pale eoliche di Stellaria. Nikos perde Cora? Affatto, perché Cora non muore: Cora ritorna al mare, ritorna onda pesce linea e massa e spuma. E Salvo capirà questo durante la sua permanenza sull’isola, di questa conoscenza gli verrà fatto dono attraverso il sonno: che nel suo essere (così lo descrive Laura Pugno) liquido denso e acquatico, nel suo essere sonno-materia, è rivelazione. E il lettore capirà, capisce questo attraverso la scrittura, la lingua: che noi non possiamo essere disgiunti da chi amiamo. Perché anche noi siamo carne e pietra e onda e erba, siamo il corpo di sirena e il corpo dell’uomo che si nutre della sirena e che della sirena è nutrimento. Siamo Cora che mangia il tonno dalla scatoletta. Cora che si ricongiunge al mare. Noi siamo i perdenti e i perduti: pregni di tutte le vite e non vite che hanno attraversato la terra prima di noi. Partecipiamo della ferocia di natura. Partecipiamo della dialettica della luce e del buio. Facciamo tutti parte di un unico, immenso organismo del prima e del poi, del passato e del presente, della vita e della morte. Abitiamo questo mondo orizzontale dove l’assenza è semplice distanza. Dove i morti non se ne vanno: non ascendono né discendono, non stanno aldiqua né aldilà di nulla. I morti, semplicemente, si spostano accanto.

 

Isola dei morti

L’Isola dei Morti, a Moriago della Battaglia. Dove ho iniziato a leggere “La metà di bosco”.

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