Juan Rulfo, Pedro Pàramo
Ho letto “Pedro Páramo” di Juan Rulfo sei volte. Una volta dietro l’altra, negli ultimi due mesi. La prima volta l’ho abbandonato dopo poche pagine: perché non era il momento, quello, per me; e i libri sono come i maestri, che arrivano quando l’allievo è pronto. Continuerei a leggere “Pedro Paràmo” per i prossimi due, quattro, dodici mesi: come fece García Marquez, che per un anno intero non si nutrì – letterariamente parlando – di nulla che non fossero i testi di Rulfo (“Pedro Páramo”, appunto, e i racconti della “Pianura in fiamme”).
La trama di “Pedro Páramo” è semplice e sta tutta nella prima riga:
Venni a Comala perché mi avevano detto che mio padre, un tal Pedro Páramo, abitava qui.
Abbiamo una voce narrante in prima persona (“venni”) che introduce il protagonista: Juan Preciado. Un protagonista che svanirà, con lo scorrere delle pagine, fino a diventare un’ombra fra tante; così come svanirà la voce narrante che controlla, che ordina il racconto, che articola nessi di causa ed effetto.
Abbiamo un luogo, Comala, che è un ambiente connotato storicamente: “un territorio – Jalisco e per sineddoche il Messico intero (sto citando dalla bella introduzione di Ernesto Franco) – abbandonato dalla Storia e dagli uomini” nell’epoca della post-rivoluzione; ma che è anche (o soprattutto) un ambiente connotato meteorologicamente: la pioggia – a Comala sembra piovere sempre – e il vento e il sole. “La meteorologia è il vero paesaggio dei racconti” scrive Ernesto Franco, questa volta nella prefazione della “Pianura in fiamme”.
Abbiamo, ancora, l’accenno a un discorso riferito: “mi avevano detto”. Perché “Pedro Páramo” è un romanzo di voci, di cose che vengono dette, raccontate: ma non è sicuro che siano esistite o che stiano esistendo.
Infine, Pedro Páramo: l’uomo attorno al quale, e per causa del quale, tutto accade.
«Lei conosce Pedro Páramo?» domanda Juan Preciado all’uomo che lo accompagna a Comala. «Chi è?» «Un rancore vivente» gli risponde lui.
Comala è un paese di ombre – di persone che erano e non sono più – e “Pedro Páramo” è un romanzo costruito su racconti di ombre. Le ombre sono quelle dei morti che non sono riusciti a lasciare il mondo dei vivi e che sono rimasti a Comala, sotto la terra di Comala: che «non è l’aldilà», scrive Carlos Monsivàis, «ma il quipersempre.» E come sono fatti questi morti? Qual è la loro materia, mentre sotto la terra si agitano, mentre dentro le casse di legno corrose dalla terra bisbigliano? Questi morti non sono scheletri: sono ancora cadaveri.
Ogni cultura ha elaborato – fin dalle origini – riti di separazione più o meno complessi che dividono la vita dalla morte. Questi riti servono a ridurre, progressivamente, lo stato di impurità del cadavere: che è certo fisica, ma soprattutto simbolica. Il cadavere è un corpo in dissoluzione, in disgregazione, che rimanda – metaforicamente – a uno stato di dissoluzione e disgregazione sociale. Il cadavere smette di rappresentare un pericolo quando si stabilizza – seppur non in via completamente definitiva – diventando scheletro: solo allora si compie il suo ingresso nel mondo dei morti: un mondo quieto e ordinato, pacificato, il mondo degli antenati.
In alcune parti del Giappone esiste ancora il rito della seconda (ma sarebbe meglio dire terza) sepoltura. Scrive Massimo Raveri, in “Itinerari nel sacro” (Cafoscarina, 2006):
Nella prima sepoltura (umebaka 埋墓), tutto è disordinato, sciatto, ed è connotato da simboli di precarietà. Il cadavere è sotterrato in una zona a parte del cimitero, avvolto in un semplice sudario e a contatto con la terra perché essa lo corroda più facilmente. L’area dell’inumazione è delimitata da una barriera esile di paletti di bambù. Felci e erbacce, lasciate crescere in modo spontaneo, si insinuano fra le tombe. Le tombe stesse non sono allineate ma disposte a caso. L’impressione generale è di uno spazio abbandonato, come se fosse refrattario ad ogni imposizione di ordine. La virtualità, l’aggressività delle forme caotiche della natura riflette tutta la potenzialità negativa del cadavere che in queste forme si nasconde e si annulla. Le tavolette con il nome postumo del defunto sono di materiale deperibile come i pochi altri oggetti funerari, molto semplici e poveri: sparsi nell’erba, sono esposti all’azione distruttrice delle intemperie. Lo specifico atto di sepoltura è definito da termini spregiativi: nageru 投げる, gettar via, suteru 捨てる, abbandonare. Talvolta si vedono, lasciati sul terreno, fra le erbacce alte, le scarpe del morto, un ombrello, una borsa: tristi oggetti di un viaggio in solitudine.
La seconda sepoltura (mairibaka 詣り墓), ha la connotazione dell’ordine e della stabilità. Le ossa, riesumate, pulite, talvolta imbiancate, sono riposte in una giara o in un’urna che non è più fragile e precaria, ma è fatta di pietra. Il nome del morto vi è inciso in modo indelebile. L’urna è collocata in una tomba nel cimitero principale, che si presenta come uno spazio ordinato, pulito, di quiete serena. Il corpo del defunto è inserito in un ordine sociale gerarchico all’interno dello spazio riservato ai defunti del nucleo famigliare cui appartiene. Spesso l’urna ha la forma di una casa.
Ma non è ancora la sistemazione definitiva dei resti mortali di un uomo. Lo scheletro rappresenta pur sempre una condizione di passaggio. Alla fine del trentatreesimo anno le ossa saranno ancora una volta riesumate, cremate e poste nell’urna comune e senza nomi degli antenati della famiglia, all’ombra di una statua del Buddha. Allora, e solo allora, il corpo e lo spirito del defunto avranno compiuto tutto il loro itinerario nell’oltretomba. Anonimo e immateriale, sarà finalmente ‘morto’.»
I morti di “Pedro Páramo” sono i morti della prima sepoltura: parlano ai vivi, perché ancora fanno parte del mondo dei vivi. “Pedro Páramo” non è semplicemente un romanzo di racconti di ombre: è – sembra a me – un romanzo di confessioni di cadaveri.
E cosa impedisce ai morti-cadaveri di “Pedro Páramo” di lasciare il mondo dei vivi, di trovare – in definitiva – la pace? Il desiderio. Qualcosa che hanno desiderato in vita e che non hanno ottenuto. Ma, soprattutto, il desiderio più potente di tutti: quello di Pedro Páramo per Susana San Juan.
«Ho aspettato trent’anni che tu tornassi, Susana. Volevo avere tutto. Non solamente qualcosa, ma tutto quello che si potesse ottenere in modo che non ci rimanesse nessun desiderio, solo il tuo, il desiderio di te.»
È il desiderio, in “Pedro Páramo”, che impedisce la morte.
C’è un altro romanzo – molto lontano da questo per tempo e immaginario – dove il desiderio impedisce la morte. Nei “Promessi sposi”, il desiderio di Renzo per Lucia e di Lucia per Renzo è un desiderio salvifico: entrambi si ammalano di peste, entrambi guariscono. Il desiderio di don Rodrigo non è salvifico: e infatti don Rodrigo di peste si ammala e di peste muore. Il desiderio di Renzo e Lucia è un desiderio in grazia di Dio, sotto l’ala protettrice della Provvidenza. Il desiderio di Pedro Páramo non è in grazia di Dio: se nei “Promessi sposi” l’evitamento della morte è salvezza, in “Pedro Páramo” è solo dannazione.
Se una provvidenza in “Pedro Páramo” esiste, è ben nascosta oppure agisce solo parzialmente. È, peraltro, una provvidenza con la “p” minuscola.
È interessante confrontare due incontri fra ecclesiastici: quello fra padre Rentería e il curato di Contla; e quello fra don Abbondio e il Cardinal Federigo. Sia padre Rentería che don Abbondio sono due vili: due uomini che hanno fallito nel proteggere gli altri e la fede in Dio per proteggere se stessi. A entrambi, l’autore regala una notte insonne:
Il padre Rentería si sarebbe ricordato molti anni dopo della notte in cui la durezza del suo letto lo tenne sveglio e poi lo obbligò a uscire: questo in “Pedro Páramo”.
Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose: questo nei “Promessi sposi”.
Nel confronto fra inferiore e superiore, fra chi ha mancato e chi redarguisce, a don Abbondio viene concessa una seconda possibilità:
«Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero» rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
«Ah sì, figliuolo, sì!» esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse: «lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutt’e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino.»
A padre Rentería una seconda possibilità viene negata.
«Lei non potrebbe…? Provvisoriamente, diciamo… Devo dare l’olio santo… la comunione. Muoiono in tanti al mio paese, signor curato.»
«Padre, lascia che i morti li giudichi Dio.»
«Allora no?»
E il signor curato di Contla aveva detto no.
Ma perché non può esserci assoluzione? Perché, in “Pedro Páramo”, anche colui che dovrebbe assolvere non è in grazia di Dio.
Il cardinal Federigo si schermisce, alle lodi di don Abbondio:
«Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare,» disse Federigo, «perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io, basta a confondermi.»
E lo stesso narratore, poco prima, ridimensiona certi panegirici che pur sembrano toccargli (per via di quel manoscritto, di quell’anonimo…): […] anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé.
Eppure il narratore stesso non può non prendere atto della coerenza: Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
Non così è per il curato di Contla, che di se stesso dice: «No, padre, le mie mani non sono abbastanza pulite per darti l’assoluzione. Dovrai cercarla da qualche altra parte.»
Il curato stesso è in peccato: così come è in peccato la terra, una terra dove la provvidenza resta qualcosa di piccolo, di mal sbozzolato, di imperfetto. Qualcosa che non può agire.
Dopo passeggiarono sotto il porticato della casa del parroco, all’ombra delle azalee. Sedettero sotto un pergolato dove maturava l’uva.
«È acerba, padre» il signor curato prevenne la domanda che gli stava per fare. «Viviamo in una terra in cui c’è tutto, grazie alla provvidenza; ma tutto cresce acerbo. Siamo condannati a questo.»
In “Pedro Páramo” i morti sono condannati: a vivere.
Non sono morti che – con le loro storie mormorate più che raccontate – ricordano ai vivi che prima o poi dovranno morire. Sono cadaveri che – non riuscendo ad abbandonare il mondo completamente, a diventare scheletri e poi polvere e infine nulla – mettono in scena costantemente, impietosamente, di fronte ai vivi, la dannazione di non poter morire mai.
Sia “Pedro Páramo” (traduzione di Paolo Collo) che “La pianura in fiamme” (traduzione di Maria Nicola) sono editi da Einaudi.
L’immagine di copertina è di José Guadalupe Posada.