Valentina Durante – Copy & Story | Il naming: cinque consigli contraddittori (che valgono per dieci)
La lezione dei brand globali e l’esperienza di un famoso pubblicitario dell’Ottocento
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Il naming: cinque consigli contraddittori (che valgono per dieci)

 

La lezione dei brand globali e l’esperienza di un famoso pubblicitario dell’Ottocento

 

“Thump! thump! thump!”

Fino a venticinque anni fa, questo suono – cadenzato, potente, ritmico – scandiva le giornate nel villaggio di Sanankoroni, in Mali. Era il suono del pestello di legno che batteva sul mortaio: decine e decine di pestelli che, manovrati dalle mani instancabili delle donne di Sanakaroni, trituravano arachidi o noci o chicchi di granoturco.

“Thump! Thump! Thump!”

Tutto il giorno, tutti i giorni.

All’inizio degli anni Novanta, arrivò a Sanankoroni la “multifunctional platform” dell’UNDP (United Nations Development Programme): motore a diesel, cinghie di trasmissione, diverse modalità di lavoro in base ai diversi tipi di semi o granaglie. Velocissima.

Il “thump! thump! thump!” diventò “chug-chug-chug”: un suono più soffocato e sommesso, quasi uno stantuffo. Più brutto, forse. Ma se le donne di Sanankoroni impiegavano tre giornate intere per triturare un sacco di granoturco, adesso se la cavavano in meno di quindici minuti. Le madri potevano dedicarsi ad altro: iniziare un’attività commerciale, a esempio. Le figlie, prima obbligate al lavoro domestico, potevano frequentare regolarmente la scuola.

Eppure: all’inizio la “multifunctional platform” venne guardata con sospetto. Le donne storcevano il naso all’idea di affidarle il lavoro. Il problema era il nome: quel “multifunctional platform”, che non piaceva a nessuno. E, non piacendo il nome, neppure piaceva la macchina.

Ci volle del tempo (e, forse, l’inventiva di una donna con un buon talento di copy): ma quando la “multifunctional platform” venne ribattezzata “La nuora che non parla” nessuna ebbe più dubbi. “La nuora che non parla” si diffuse rapidamente non solo a Sanankoroni, ma anche nei villaggi vicini: con soddisfazione di tutti, anche degli uomini, contenti di vedere le loro mogli e madri e figlie meno stanche, e con mani più lisce e soffici.

Secondo Everett M. Rogers (dal cui saggio “Diffusion of innovations” è tratta questa storia – vera), il nome incide enormemente sulla compatibilità percepita di una innovazione, dunque sulla sua suscettibilità di essere acquisita. Quando, parecchi anni fa, venne introdotto in Corea del Sud un dispositivo intrauterino chiamato “Copper-T”, i risultati furono disastrosi: perché la lettera T nell’alfabeto coreano non esiste e perché la cultura coreana associa al rame significati più negativi che positivi.

Trovare il nome giusto è una croce anche per i narratori (questi sono dieci consigli, assai utili, di Giulio Mozzi). La vita dei pubblicitari è un po’ più complicata: anzitutto perché il nome deve essere registrabile, ossia non depositato da altri, almeno nella stessa merceologia di prodotto (per questo si ricorre, solitamente, alla consulenza di uno studio legale). Se il mondo della letteratura è piena di Jack e di Joe e di Anna e di Mario e continuerà a essere piena di Jack e di Joe e di Anna e di Mario, il mondo della pubblicità ha una Coca Cola e una Coca Cola soltanto (o una Microsoft o un Facebook eccetera). In somma: se è vero che nessun romanziere, oggi, si sognerebbe mai di chiamare un personaggio “Lorenzo-o-come-dicevan-tutti-Renzo” (se non per fini parodistici), è anche vero che le possibilità di scelta sono, in letteratura, assai più numerose.

Di buone pratiche per il battesimo di marchi e prodotti è pieno il web. Io mi limito qui a elencare cinque regole, ognuna con la sua anti-regola: a riprova che, in pubblicità come anche in letteratura, tutto (teoricamente) si può fare se viene fatto con consapevolezza e (questo in pubblicità) all’interno di una coerente strategia di posizionamento.

1) Un buon nome è semplice e breve.

I nomi brevi si memorizzano con più facilità. I nomi semplici si usano con più tranquillità e confidenza (e questo facilita il passaparola). La catena di giocattoli Toys ebbe moltissimi problemi, quando tentò di introdurre in Italia il suo nome completo (“Toy’r’us”): gli italiani non lo leggevano; oppure lo leggevano, ma lo pronunciavano male. In entrambi i casi, finivano per lasciar perdere: piuttosto che rischiare l’imbarazzo di pronunciare male un nome difficile, i consumatori preferiscono non pronunciarlo affatto.

Ma: un nome può essere lungo, se è facilmente abbreviabile.

Le borse Mandarina Duck sono diventate Mandarina. La birra Budwiser è diventata Bud. La stessa Coca Cola (che nella lista dei “Most Valuable Brands” ha conquistato nel 2016 un onorevolissimo quarto posto) è meglio conosciuta come Coca.

2) Un buon nome non è ambiguo.

La pronuncia deve essere facilmente intuibile e il significato che da questa pronuncia deriva non deve originare fraintendimenti. Honda creò il nome “Honda Precis” per sottolineare il carattere “preciso e accurato” dell’automobile, pur nel suo essere un modello economico. Eppure, da ricerche condotte sul mercato americano, si scoprì che: i consumatori che pronunciavano correttamente il nome (PRI-sus) ricavavano effettivamente questa impressione (precisione ed economicità). I consumatori che leggevano il nome come PREI-sii avevano l’idea di un auto di lusso o sportiva (posizionamento non desiderato dall’azienda). E ancora: i consumatori che pronunciavano il nome come PREI-sus si formavano l’idea di una familiare (altro posizionamento non desiderato).

Ma: un nome può essere ambiguo, se l’ambiguità è ragionata.

Da uno studio (Leclerc, Schmitt e Dube, 1994) è emerso che alcuni ipotetici nomi che possono essere utilizzati sia in inglese che in francese (come Vaner, Randal, Massin) vengono percepiti come più autorevoli se pronunciati all’inglese, e come più edonici se pronunciati alla francese. E questa duplicità di percezione può essere sfruttata consapevolmente dall’azienda.

3) Un buon nome si tocca.

Sempre uno studio su marche ipotetiche (ah, quanto piacciono le ricerche ai pubblicitari! questo è di Robertson, 1987), ha evidenziato che i nomi con una forte componente visiva (Ocean, Frog, Plant, Paper) si riconoscono e si ricordano meglio dei nomi astratti (History, Truth, Moment, Memory). A maggior ragione, si riconoscono e si ricordano meglio i nomi che significano qualcosa (ossia: che possono essere inseriti nelle strutture cognitive esistenti del consumatore), dei nomi che non significano nulla. In somma, per un’auto “giovane ed esuberante” meglio il nome Neon (effettivamente scelto da Chrysler) del nome CTS521. O pensiamo anche ai colori Pantone: è più facile ricordarsi di un 18-4525 TP oppure di un “Blu Mar dei Caraibi?”.

Ma: anche i puri spiriti non se la cavano male.

Il terzo posto nella lista dei “Most Valuable Brands” lo detiene Microsoft: che è un nome inventato (combinazione, però, di due parole esistenti: “microcomputer” e “software”). Ma pensiamo anche a Novartis (combinazione di “nova” e “arte”) oppure a Duracell (combinazione di “durable” e “cell” che significa anche “pila”). E, uscendo dallo stretto ambito pubblicitario: quanti ricordano HAL, il supercomputer di “2001 Odissea nello spazio”? Il suo nome, secondo alcuni, venne creato unendo le tre lettere che nell’alfabeto precedono le lettere del marchio IBM (cosa smentita sia da Clarck che da Kubrick). Dunque: si può anche lavorare di fantasia: incastrando morfemi e combinando casualmente sillabe. In ogni caso, meglio evitare i nomi impronunciabili: i Qfwfq e i Kgwgk lasciamoli a Calvino.

4) Un buon nome pianta bandierine.

I nomi che enfatizzano un’associazione rilevante con un attributo o beneficio o categoria merceologica (e dunque che “piantano una bandierina” per appropriarsi di quel territorio/posizionamento) vengono più facilmente ricordati e scelti. «Per esempio, dovrebbe risultare più facile comunicare ai consumatori che un detersivo da bucato “aggiunge un profumo fresco” alla biancheria se lo si chiama “Blossom”, anziché attribuirgli un nome neutro e non suggestivo come “Circle”» (da Keller, Busacca, Ostilio, “La gestione del brand”).

Ma: a volte piantare bandierine può non essere così conveniente.

Specie se il nome è di un marchio e non di un prodotto: perché restringere eccessivamente il posizionamento può compromettere le prospettive di crescita ed espansione commerciale nel lungo periodo. Non che non si possa fare: lo fece Compaq, nato come marchio per computer portatili (piccoli, compatti), che poi diversificò (a suon di campagne) introducendo modelli più grandi. Ma (come è stato nel caso di Compaq, appunto) sostenere un riposizionamento può rivelarsi impegnativo e costoso.

5) Un buon nome è globale.

Il mercato è il mondo: anche se il prodotto viene inizialmente pubblicizzato e promosso solo in Italia, è bene non escludere a priori delle espansioni all’estero. Questo spiega perché, specie in talune merceologie, la scelta dell’inglese può essere molto opportuna (o del francese, per marchi / prodotti della moda o della profumeria; o dell’italiano stesso, per la moda o l’alimentare). In somma: un nome che, come il nero, sta bene con tutto (funziona in tutti i paesi) è una bella comodità.

Ma: non sempre il globale è veramente globale.

La letteratura di marketing è ricca di cosiddetti “incidenti di branding internazionale”: perché la lingua è una faccenda complicata – fra dialetti, espressioni gergali e modi di dire – e prendere fischi per fiaschi (o fiaschi per fischi) è facile e frequente. La Chevrolet Nova non riuscì mai a imporsi sui mercati ispanofoni: perché No-va, in spagnolo, significa “non funziona”. Toyota dovette togliere il 2 finale alla sua MR2, quando decise di esportare in Francia: per evitare accuse di coprolalìa. E quando Pepsi sbarcò nel mercato cinese, traducendo letteralmente lo slogan “Pepsi brings you back to life” (Pepsi ti fa resuscitare), il senso della frase diventò: “Pepsi fa uscire i tuoi antenati dalla tomba”. Campagna abortita.

Riassumendo: un buon nome è quello che si fa ricordare e produce, al ricordo, le immagini e le associazioni desiderate (non semplicemente favorevoli: ma coerenti con gli obiettivi di comunicazione). E un buon nome può accrescere la credibilità e l’autorevolezza del marchio / prodotto, come ben sapeva un famosissimo pubblicitario dell’Ottocento: Alessandro Manzoni.

«Fin dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi.

[…]

Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc

Ma di Manzoni, come già detto, riparleremo.

[Per approfondire: Annamaria Testa ha dedicato alla questione dei nomi cinque post molto interessanti. Il primo sta qui. E da lì, si può accedere agli altri quattro.]

Naming cover

Due famosi pubblicitari a confronto: David Ogilvy (a sinistra) e Alessandro Manzoni (a destra)

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