Valentina Durante – Copy & Story | Il suicidio di Angela B.: una divagazione (non una restituzione)
Questo mio testo non è un atto altruistico, bensì un atto dichiaratamente egoistico: ma forse la prova più tangibile della potenza di questo incredibile, impressionante, meraviglioso romanzo.
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Umberto Casadei, Il suicidio di Angela B.

 

Nel 1992 avevo diciassette anni e frequentavo la terza liceo, al Valgimigli di Montebelluna. Durante una ricreazione i maschi della mia classe o i maschi di tutte le terze o i maschi solo della A e della B non ricordo, si diedero appuntamento ai gabinetti, ne occuparono uno, si chiusero a chiave, e salirono in piedi sulla tazza del water: uno dopo l’altro, per vedere se teneva. Al decimo o undicesimo maschio non so, la ceramica cedette, la tazza franò, zampillò fuori acqua o acqua mista a piscio e si dovette chiamare il bidello. Che ebbe, Alfredo, il bidello, una mezza crisi di nervi. Seguì quel che di solito segue in questi casi: piccolo scandalo, redarguizione, minaccia di sospensione (ritirata per opportunità: si era a ridosso degli esami), pentimento, concorso genitoriale al pagamento del danno, e una neanche troppo dissimulata soddisfazione da parte degli autori, perché quella nequizia da poco, tenendo conto di cosa succedeva, anzi non succedeva nel nostro istituto (niente fumo, niente droga, niente atti osceni, poca politica, un paio di minacce di ordigni in concomitanza di interrogazioni cattive) sarebbe stata ricordata e tramandata ai posteri. In saecula saeculorum.

Nel 1993 avevo diciotto anni e prendevo lezioni di scuola guida. Il martedì mattina uscivo di casa alle sette e quarantacinque, attraversavo a piedi il parco giochi in zona Peep, e raggiungevo il supermercato Crai dove mi aspettava la Punto bianca della Biemme per la mia oretta settimanale di pratica. Un giorno il parco giochi non potei attraversarlo perché era recintato con uno di quei fascioni di plastica a righe bianche e rosse che si adoperano nei cantieri o quando ci sono lavori in corso sulla carreggiata. C’erano persone aggruppate accanto al fascione, dal lato del campo sportivo. C’erano i carabinieri. Non c’era più (ma c’era stata) l’ambulanza del 118. Era successo che una donna s’era suicidata: impiccata con una sciarpa lunga due metri al sostegno dell’altalena. L’avevano trovata morta, con una gamba attorcigliata alla catena di una delle due altalene e un piede scalzo: probabilmente si era divincolata nel tentativo di liberarsi, presa dal panico, mentre soffocava, e non ci era riuscita. Dicevano (le persone aggruppate accanto al fascione) che venisse dall’Est e che fosse in Italia da poco. Non la conosceva nessuno. Non l’aveva mai vista nessuno. Non doveva essere della zona.

Uno di questi due fatti è inventato. Non importa dire quale. Ciò che importa dire è che entrambi mi sono venuti in mente nel corso della lettura di un romanzo: Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei, edito da Sironi. Un romanzo molto lodato e notoriamente introvabile (la mia copia è arrivata dopo dieci giorni grazie a un interprestito: dalla biblioteca – mi pare – di Castelfranco Veneto).

È la prima volta che scrivo di un testo che ancora non ho ancora terminato di leggere. Il suicidio di Angela B. l’ho iniziato cinque giorni fa: sto a pagina 486, su 565 che compongono l’opera: quasi alla fine, ma non alla fine. Se lo faccio, se m’impegno in un commento (no: in una divagazione) prima di aver raggiunto e chiuso la quarta di copertina, non è per via dell’intrattenibile entusiasmo (pur se l’intrattenibile entusiasmo c’è, dato che Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei è uno dei romanzi più impressionantemente belli che io abbia mai letto da quando, con coscienza, leggo), ma perché, giunta a pagina 486, io ho la netta percezione che Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei sia uno di quei romanzi che è impossibile terminare di leggere. Si terminano, si chiude la quarta, ma non c’è realmente fine. Si ricomincia, si ricomincerà, si riprenderà dal mezzo, da un quarto, da tre quarti alla fine (la forma del Suicidio di Angela B. di Umberto Casadei permette di farlo, di non essere incatenati alla consequenzialità della trama), ma non sarà possibile (non sarà possibile a me) dichiarare questo romanzo: finito.

Leggere e rileggere è piuttosto normale: sono rari i libri (belli) che non rileggo. Ma in questo caso non si tratta neppure di rileggere e basta. Si tratta, a partire dal testo, di immaginare. Si tratta, a partire dal Suicidio di Angela B. di Umberto Casadei, di accettare, di accogliere la comparsa per affioramento di altre storie. Come quella del cesso spaccato, della nequizia da quattro soldi. Come quella della donna impiccatasi nel parco giochi. Storie accadute o storie inventate. Storie magari sentite, neanche mie. Il Suicidio di Angela B. di Umberto Casadei è stato (sta essendo), per me, un potentissimo generatore – o meglio ancora: attrattore – di storie.

Ma procedo per gradi.

La forma di un testo è cruciale. La forma, si dice, mostra il come; il contenuto – la materia immaginata – dice il cosa. E invece no: la forma dice anche il cosa: cosa il lettore deve fare dell’opera, come la deve manipolare. La forma esibisce del testo la sua qualità di oggetto e ogni oggetto ben fatto chiama, se non addirittura costringe, a un dato tipo di uso. Una maniglia si stringe e si spinge giù. Un manico di tazza si afferra. Una penna s’impugna. Un testo come Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei si guarda, anzitutto: per capire come è fatto.

Io mi sono fatta guidare da una recensione molto bella scritta da Arianna Ulian per Vibrisse, circa un anno fa (qui: https://bit.ly/2K8Xcg7). Come dice Arianna, la cosa peggiore è agganciare il romanzo di Umberto dalla trama: pessimo approccio (pessima idea i riassuntini da quarta di copertina), perché la trama – e il suicidio di Angela che dovrebbe costituire il dispositivo drammatico, l’accadimento detonatore che però non accade (o almeno non accade nel testo) – è sostanzialmente marginale.

Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei io l’ho anzitutto guardato. Ho osservato le parti di cui è composto così come si farebbe con un’architettura, una casa, per capire da che lato entrare e per quali porte farlo. Cornice. Contributi. Le ore. Articoli. Le giornate. Eccetera. A volo d’uccello sull’edificio scoperchiato, sull’edificio in pianta. Da dove entrare? Dalla porta meno ovvia, secondo me: l’ultima pagina. Quella che precede l’elenco degli altri titoli pubblicati nella collana “indicativo presente” di Sironi Editore, a cura di Giulio Mozzi. Pagina quasi bianca. Al centro, si legge:

Qualcuno mi salvi.

Si parte da qui: c’è stato un suicidio (lo apprendiamo dal titolo). C’è un autore (Umberto Casadei: anche questo lo apprendiamo dal titolo). E qualcuno deve essere salvato.

Identificata la porta d’ingresso, torniamo al cosiddetto e tradizionale principio: dove troviamo delle “Note istituzionali attorno a Il suicidio di Angela B., di Umberto Casadei”. E dove apprendiamo dell’esistenza di due romanzi, o meglio: di un romanzo nel romanzo, aventi lo stesso titolo: “Il suicidio di Angela B.” (o: Il suicidio di Angela B.). Il primo (il romanzo contenitore) ha come autore Umberto Casadei. Il secondo (il romanzo contenuto) ha come autore Gianni Dezanni. Sironi è l’editore del primo, Monopolio è l’editore del secondo. Leggiamo anche:

 

“Il suicidio di Angela B.”, di Gianni Dezanni, ha un dentro e un fuori.

Anche Il suicidio di Angela B., di Umberto Casadei, ha un dentro e un fuori.

Il dentro del Suicidio di Umberto è fatto dal dentro e dal fuori del “Suicidio” di Gianni.

Mentre il fuori del “Suicidio” di Gianni è fatto da Umberto più voi, il fuori del Suicidio di Umberto è fatto da voi meno Umberto.

Il dentro del Suicidio di Umberto e più grande del dentro del “Suicidio” di Gianni. E altrettanto il fuori.

(La faccenda sarebbe un po’ più complessa. Non mi pare il caso.)

 

E invece è il caso: perché lì, secondo me, sta il punto.

Entrambi i “Suicidi” hanno un dentro e un fuori. Cosa rientra in questo dentro? La materia, verrebbe da dire. Una materia dichiarata attraverso una forma. Entrambi i “Suicidi” sono una congerie di testi e una polifonia di voci, rese con un talento per la mimesi stupefacente (stupefacente). Monologhi si giustappongono a dialoghi di non so quante voci ad articoli di giornale a lettere a “fiori” (piccole dediche idealmente poste sulla tomba di Angela, cenotafi a bordo strada) a necrologi, con un fortissimo sbilanciamento verso il non esaurito, il non completato, il non chiuso. La sensazione è che altro potrebbe aggiungersi. La sensazione è che altro potrebbe (dovrebbe?) starci. La sensazione, in definitiva, è che – dal punto di vista della materia – neppure esistano un dentro e un fuori, perché un dentro e un fuori presuppongono dei limiti, un perimetro, una circonferenza chiusa e questo, nei “Suicidi”, propriamente non si dà. Nulla propriamente si chiude. L’impressione, già a un quarto, metà lettura, è che del suicidio di Angela non sapremo poi molto di più di quanto non sapevamo all’inizio. Di quel messaggio, esposto sul retro di copertina, che tutti prima di acquistare il libro guardano:

«Cari miei,

non è colpa vostra, se questo è il vostro pensiero. Non è neanche colpa mia. Non è colpa di nessuno. Non c’è colpa, in queste cose.

Vi saluto.

Angela.»

Il suicidio di Angela, nel “Suicidio”, funge non già da detonatore per qualcosa, da evento scatenante: perché l’idea di una detonazione è l’idea di qualcosa che fa scaturire, di un nocciolo che si espande, di una forza centrifuga che porta dall’interno all’esterno. Il suicidio di Angela agisce semmai come un attrattore, una calamita: una forza centripeta che aggrega storie diverse, personaggi diversi, che li fa muovere, agire, tendere a. Questi personaggi non raccontano la storia di Angela: raccontano semmai la propria storia attraverso la storia di Angela. E l’attrazione non si esaurisce a ciò che sta dentro al “Suicidio”, ma si estende a ciò che sta fuori dal “Suicidio”. Alle storie che la forma del “Suicidio”, per il suo essere perfettamente, compiutamente, quella che è (ossia aperta), riesce a suscitare. Leggendo i monologhi di Gianni Dezanni e quei dialoghi – mezzi brusii, mezzo vociare – in classe e durante l’intervallo, nei gabinetti, quelle battute che sembrano raccolte in presa diretta e senza alcun intervento da parte di un narratore, essendo esposta a quel grumo di pietà vera e ostentata, di qualunquismi, di piccole beghe e rivalità, di lamento spesso insterilito dall’atto stesso di lamentarsi (Se la sono fottuta loro, la nostra età. Capite cosa cazzo ci lasciate?), quel – in definitiva – macigno di impotenza e tutto sommato di ininfluenza che grava su tutto (la Burzo si era uccisa – uccisa!… e io ero lì che non sapevo se avrei dovuto dire alla prof che non avevo studiato), io non sono riuscita a non pensare (a non immaginare) quella nequizia da poco di dieci undici adolescenti ammassati sopra un gabinetto, e non sono riuscita a non pensare (a non immaginare) quel capannello attorno a un corpo di donna sconosciuta, suicidata. Ho sentito non tanto l’urgenza di raccontare (quella, mi càpita spesso quando leggo), ma la legittimità ad aggiungere altro racconto alla narrazione. Da fuori, sono stata portata dentro. O forse, non sono mai stata fuori.

quindi in un certo senso tutti noi eravamo Angela

Ma nel cosiddetto fuori c’è ancora dell’altro.

La lettera di Angela – presente in quarta di copertina ma anche in diversi punti del libro – l’ha scritta non Umberto Casadei ma Giulio Mozzi, nel tentativo di coinvolgere Umberto nel suo (suo di Mozzi) ancora in lavorazione “Fiction”.

 

Avevo concepito il progetto di un racconto del quale io avrei scritto solo poche righe: la lettera di Angela, appunto. A un po’ di amici chiesi di scrivere dei testi di contorno. Alcuni lo fecero; altri no. Troppo pochi stettero al gioco. Ma Umberto, a distanza di mesi, mi comparve davanti con in mano forse una dozzina di fogli. Lessi. “Ma questa roba qui potrebbe diventare un racconto autonomo”, gli dissi. Altri mesi dopo, Umberto ricomparve con un’ottantina di fogli in mano. Lessi. “Ma questa roba qui potrebbe diventare un romanzo autonomo”, gli dissi. Il resto potete immaginarlo. La verità è che il romanzo Il suicidio di Angela B. esiste, ed esiste in questa forma, solo perché a un certo punto io e l’eroica Paola Borgonovo, editor in Sironi, decidemmo che Umberto doveva essere fermato – non l’avessimo fatto, il romanzo sarebbe ancora in corso, credo, e conterebbe migliaia di pagine. (nota al testo già citato di Arianna Ulian).

 

Questo di Giulio Mozzi è un racconto che appartiene al fuori dei “Suicidi” e che io – avendolo letto in varie forme e varie sedi – ormai avverto come parte integrante del testo. Del Suicidio di Umberto, almeno. È come se Il suicidio di Angela B. di Umberto Casadei fosse composto non solo dal “Suicidio di Angela B.” di Gianni Dezanni – dunque dal suo materiale narrativo interno – ma anche di un, per così dire, materiale narrativo esterno, formato dalle storie a proposito del Suicidio di Angela B. Più tutte quelle che, prodotte da chi legge (un fuori ancora più esterno del fuori), possono eventualmente aggiungersi (e, come ho dimostrato io, si aggiungono).

Giulio Mozzi (che, in questa sede, è un Giulio Mozzi come funzione del testo di Umberto Casadei, dunque, come personaggio di quel fuori) stava lavorando, come si è detto, a “Fiction”.

In “Fiction” – raccolta di racconti ripubblicata un anno fa come “Fiction 2.0” da Laurana – è presente, circa a metà, un testo che titola “Narratology – con preghiera di far circolare”. E che proprio di questo parla: della possibilità (della liceità) del lettore di continuare ciò che lì è definito “il libro dei libri”, ossia il testo sacro.

 

Lo stesso libro dei libri chiede di essere continuato

Eppure il libro dei libri dice: Vi sono ancora molte cose che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. Il libro dei libri dice dunque di se stesso: io sono solo una parte di ciò che poteva essere scritto, quindi molto altro può essere scritto.

 

E ancora:

 

Il libro dei libri non è interrotto ma incompiuto

Il libro dei libri, dunque, non è interrotto, bensì incompiuto. Questa incompiutezza è la nostra speranza: se il libro dei libri è incompiuto, noi siamo tolti dal nostro carcerario indugio e possiamo liberamente camminare, perché il nostro compito è: continuare il libro dei libri.

 

E dunque:

abbiamo un libro – Il suicidio di Angela B. – che, pur non essendo rivedibile, è comunque – per sua forma – continuabile. Lo stesso Umberto Casadei lo avrebbe continuato se non fosse stato interrotto (così come la madre di Gianni interrompe Gianni che scrive “Il suicidio di Angela B.”), stando alla narrativa a proposito del Suicidio di Umberto, dunque al fuori del Suicidio di Umberto.

abbiamo un autore – Giulio Mozzi (quel Giulio Mozzi che è parte del fuori del Suicidio di Umberto) – che concomitantemente al Suicidio di Umberto sta lavorando a una raccolta di racconti, “Fiction”, dove è presente un testo a proposito di:

un libro (dei libri) non interrotto, ma incompiuto. dunque continuabile.

un libro (dei libri) che è di fatto un testo sacro

è come una chiesa continuamente ricostruita (questo l’Artefice, nel Suicidio di Umberto)

un libro (dei libri) che contiene – proprio nella sua incompiutezza, precisamente nella sua continuabilità – una speranza, ossia un contenuto salvifico.

 

Qualcuno mi salvi.

Qualcuno. Mi. Salvi.

 

Mi viene in mente un altro testo di Giulio Mozzi (a proposito: Umberto Casadei fa parte del fuori di “Fiction”?) dove si parla di scrittura e salvezza. Un testo antecedente a “Fiction” e antecedente al Sucidio di Umberto.

 

Purtroppo, ho constatato, la letteratura non serve a salvare me. Io forse posso salvare un’altra persona ma non posso fare nulla per me. Ciascuno di noi può essere salvato, ma nessuno può salvarsi da sé. La letteratura non è un cattivo mezzo di salvazione: anche la persona divina ha scritto un libro, la fede nella quale sono stato allevato è la fede in una storia passata, presente e futura: e la storia non esiste se non viene raccontata. Tutto ciò che io scrivo è scrittura sacra in quanto io racconto solo le storie della redenzione, le persone vere o immaginarie delle quali io racconto la storia non vogliono altro che la salvezza: essere salvate, questo è l’unico desiderio delle persone delle quali io racconto la storia.

Questo è “Super nivem”, un racconto della raccolta “Il male naturale”. Che chiude con la frase:

Io, l’autore del libro, sono destinato a perdermi

E dove si afferma in buona sostanza che:

la letteratura può essere mezzo di salvazione

la scrittura, se inserita in un’urgenza di salvazione, può divenire scrittura sacra (la continuazione del libro dei libri incompiuto)

le persone di cui si racconta la storia – dunque le persone che possono leggere se stesse in quanto storia – possono accedere a una qualche forma di salvazione.

Ma non l’autore.

Io, l’autore del libro, sono destinato a perdermi

Qualcuno mi salvi.

L’autore non si salva.

 

Riprendiamo le “Note istituzionali attorno a Il suicidio di Angela B., di Umberto Casadei”.

Il fuori del Suicidio di Umberto è fatto da voi meno Umberto.

Chi è questo “voi”? Ovviamente noi: lettori. Io: che ho letto (sto leggendo). Non Umberto che, avendo scritto, non può essere di se stesso lettore. Non lo può essere in senso “puro”, almeno.

Il fuori del “Suicidio” di Gianni è fatto da Umberto più voi.

Noi restiamo noi. Io resto io: che ho letto (sto leggendo) Il suicidio e “Il suicidio”. Ma stavolta Umberto c’è.

scrivendo, mi sono scritto anch’io, anzi prima di tutto mi sono scritto io

Si è scritto, Umberto Casadei, in quanto narratore? In quanto Gianni Dezanni? In quanto fantasma che l’autore proietta al di fuori di sé – diventando altro – per poter lavorare in pagina? Sì, ma non solo.

Quanto al resto, temo appunto di essermi prodotto, oltre che una specie di personalità vicaria, anche un lettore, un destinatario immaginario … e sventura ha voluto che il fatto di rivolgermi epistolarmente a lei, una persona reale, non abbia affatto risolto il problema

Il lettore di Gianni Dezanni è solo la professoressa Bidelli? O è anche Umberto stesso?

Il fuori del “Suicidio” di Gianni è fatto da Umberto più voi.

A me sembra che Umberto Casadei abbia apparecchiato questa forma, abbia edificato questo edificio, abbia inventato (trovato) questa struttura con un romanzo all’interno del romanzo, questa Matrioska grande che ingoia una Matrioska piccola – due Matrioske identiche fatta salva la dimensione – per fare qualcosa di apparentemente impossibile, per un autore: vivere in quanto lettore di se stesso.

Io, l’autore del libro, sono destinato a perdermi

Non più, se come autore riesco a crearmi, concepire me stesso in quanto lettore.

Di un libro che titola come il mio, e che pure non è il mio.

Cambia l’autore. Cambia il curatore. Cambia la collana. Cambia la casa editrice.

E io m’invento. Mi faccio inglobare dentro questa pancia dell’Artefice, dentro questo dentro del soggetto collettivo che stabilisce e legittima una forma:

Benché l’Artefice non sia identificabile con la causa, né con l’origine egli è colui che ha deciso circa la forma, ossia, circa ciò per cui questa forma è così, e non altrimenti, ed è forma

E tutto questo non solo per produrre un lettore (un testo deve produrre i suoi lettori, diversamente non potrebbe esistere: un testo che non viene letto non esiste); ma per produrre Umberto come lettore. Che, autore del libro, lettore del libro, non è destinato a perdersi.

Qualcuno mi salvi.

Quel qualcuno sono io.

 

[Nota] Scrivere un testo dopo aver letto un testo che – per bellezza o qualità o un qualunque altro motivo – ha avuto importanza per me, è una cosa che talvolta faccio. Non si tratta di recensioni. Io sono incapace di scrivere una recensione che possa dirsi tale. Non si tratta neppure di commenti. A me piace pensarle come restituzioni: ho ricevuto dall’autore un dono, grazie alla lettura del testo, e ricambio, come posso, in base alle mie capacità e ai collegamenti che nella mia testa sgorgano, con un altro testo. Vorrei poter dire questo anche a proposito del “Suicidio di Angela B.”. Vorrei poter dire, all’autore, a Umberto Casadei: ciò che hai appena letto, autore, nei limiti con cui è stato scritto, è una restituzione. Ma non è così. Questo testo sgorga, in tutta onestà, da un atto egoistico. “Il suicidio di Angela B.” è un romanzo di una bellezza che non si può dire (e infatti io, qui, della bellezza, ho detto molto poco e forse non ho detto affatto). Però è anche una voragine, un buco nero, qualcosa che ti costringe a immaginare, che ti attira verso un centro che già percepisci non avere fine. È un romanzo dal quale, leggendolo, senti in qualche modo l’urgenza di prendere le distanze. Di fissare puntelli ai fianchi del pozzo, sulla circonferenza di questo apparente buco nero, per evitare di farti trascinare giù oltre ciò che per te è tollerabile. Pur restando nella lettura. E nella rilettura. Questo mio testo non è una restituzione, non è un atto altruistico, bensì un atto dichiaratamente (qui lo dichiaro) egoistico: ma forse la prova più tangibile della potenza di questo incredibile, impressionante, meraviglioso romanzo.

Grazie.

 

Suicidio di Angela B

 

 

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