Valentina Durante – Copy & Story | immaginazione intorno a un sasso (02/11/2017)
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immaginazione intorno a un sasso (02/11/2017)

 

Nello scrivere, a farmi danno è lo sguardo. Il modo che ho, credo.

 

Mercoledì, primo novembre. La rocca di Asolo è chiusa per manutenzione. La gente arriva con il fiato rotto dalla salita, siede sul parapetto, ammira brevemente il panorama. Sbocconcella, prende un sorso di qualcosa, riparte.

Seduta, gli occhi alla pianura. Il cielo è terso, niente nuvole, ma l’aria è densa per l’umidità: la visuale è sporca. Tento una foto controluce: controllo, l’orizzonte è venuto un poco storto. Cerco Venezia, non la trovo, in testa mi recito versi che non c’entrano niente (“È fosco l’aere, il cielo è muto…”). Mio figlio, a pochi metri, gioca: simula un condannato prima della fucilazione, premendo la schiena contro la parete di roccia.

Mi metto a osservare le persone.

C’è una donna con i capelli neri, in coda di cavallo, vestita di nero, con scarpe da ginnastica e calzini cortissimi che lasciano scoperto uno spicchio di caviglia. Ha le cuffiette alle orecchie.

Ci sono tre amici – due ragazze e un ragazzo. Le ragazze hanno rossetti rossissimi. Il ragazzo solleva quell’asta allungabile che si usa per i selfie.

Un uomo e una donna, sui cinquant’anni. Tengono per il guinzaglio un cane di grossa taglia. Mangiano un panino avvolto in carta stagnola e di tanto in tanto danno pezzetti di prosciutto al cane.

Chi narra, di solito, a partire dalle osservazioni costruisce immaginazioni. La donna vestita di nero chi è, cosa fa, cosa pensa, ha un compagno, un marito, una compagna, con chi vive? com’è la sua casa? è una villetta a schiera, un appartamento, una casa singola, con giardino o senza? e perché adesso è sola? magari ha litigato con qualcuno, mezz’ora, un’ora, un giorno fa, magari si è lasciata con qualcuno (gli occhi sono di pianto?), magari nulla di tutto questo, si sta semplicemente allenando, vive ad Asolo, viene qui tutti i giorni, fa questo percorso tutti i giorni, parte dal piano e sale, lungo via Sottocastello, così non trova macchine, poi prosegue fino alla rocca, correndo, la musica serve a darle ritmo, arrivata qui riposa, seduta sul parapetto, aspetta che una canzone finisca, la lascia finire, si tira su in piedi e riparte, a casa qualcuno la aspetta, o forse nessuno, farà subito una doccia e poi.

Io questo lo faccio ma non è che mi interessi troppo: costruire relazioni con persone che non conosco, osservarle, immaginarci sopra e intorno. Lo faccio perché so che potrebbe tornarmi utile – e infatti mi torna utile – ma non c’è gioia o desiderio. È un esercizio.

Finita la sosta, c’incamminiamo.

I gradini che portano alla rocca e che dalla rocca scendono, sono fatti di sassi annegati in un miscuglio irregolare di cemento e pietruzze. A contatto con la pioggia, con il vento, e specialmente con il calpestare e ricalpestare delle persone, i sassi si levigano e si arrotondano: più marcatamente se al centro del gradino – dove i piedi passano e ripassano; molto meno ai lati. Lì, ai lati, al limite ci passeggiano i cani: di tanto in tanto schizzando urina sul ciglio.

Cammino, camminiamo, di botto mi fermo. Ho visto sul lato sinistro un sasso strano. È di un colore tra il blu e il verde, scuro, molto levigato: come di superficie percorsa dalle suole molte volte. Non ha nessun senso, penso: la sua posizione non è centrale. E i sassi accanto a lui hanno una levigatura parziale: com’è ovvio, dato il punto in cui si trovano.

Resto ferma. Dico a mio figlio: guarda.

Guarda che bel sasso. Guarda il colore.

Ha un colore di alga, di profondità marina. È un sasso acquatico, dei tritoni e delle sirene, dico, è il sasso della memoria di quando il mondo era coperto dall’acqua, affogato, è il sasso del diluvio universale. Il sasso di Urashima Tarō, di quando scese nel castello del vecchio marino, e ne riemerse con doni e tesori e la dimenticanza, con quel sasso che è perla d’ostrica, o scaglia.

Guarda com’è liscio, il sasso, sulla gobba che sporge.

Liscio come pietra sacra, di una chiesa, di una tomba dentro una chiesa, con reliquie di santi a dormire, e i devoti che strusciano la mano per portarla alla bocca. Liscio come una pietra focaia, di uomini primitivi, di Prometeo che rubò il fuoco, un pietra sfregata da altre pietre, che fa un suono squillante quando cozza e scintille, e il verdeblu si chiazza di bagliori, s’infuoca, si estingue.

Ma guarda com’è gonfio, poi.

Del gonfiore di un corpo, una ciste, un bubbone, un dito malato, il ventre di una zecca che da vuota è secca e marroncina ma crescendo, succhiando, riempiendosi di sangue, diventa di quel verdeblu.

Tocca il verdeblu.

Ha la freddezza del marmo. Le venature, anche, bianche. Le venature come tagli, incisioni, ferite, capillari, capelli. Le venature come vene.

Possiamo portarlo a casa? dice mio figlio, intossicato.

No. È incastonato nel cemento. Immobile.

Possiamo trovarne uno uguale?

No. È introvabile. Un altro identico: non si può. È un sasso che neppure in mille anni potrà nascerne uno così. Forse è un sasso delle origini dell’esistenza.

Da prima dei dinosauri?

Da molto prima. Da prima di ogni cosa. Secondo te perché è così liscio?

Fa toc toc toc con la suola.

Non lo so.

Non lo so neanche io.

Si accoscia e gli fa una carezza.

Davvero non possiamo?

Lo prende con le due mani, allontana le foglie, tenta di sollevare. Il sasso muto, immobile.

Non possiamo.

Facciamo una foto?

Una foto, sì, ecco. Gli promettiamo il ritorno.

 

Sasso blu

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