La pubblicità sta diventando più semplice o più complessa?
Dai ciarlatani sulle casse di legno, alla Apple, ai ciarlatani sulle casse di legno (passando per Carosello).
La pubblicità non piace a nessuno: questa, che parrebbe cosa ovvia, è una realtà spesso dimenticata, anche (soprattutto?) dagli addetti ai lavori. Se esiste uno specifico letterario, uno specifico filmico, uno specifico videoludico e così via, lo specifico pubblicitario è quello di agire in un contesto di rifiuto: ognuno di noi, in linea di massima, quando legge un libro desidera leggere un libro e quando guarda un film desidera guardare un film; invece alla pubblicità siamo esposti – tranne eccezioni – contro la nostra volontà. Anche quando ci esponiamo volontariamente (a es. quando condividiamo un video pubblicitario perché divertente o commovente) lo facciamo a prescindere dal prodotto che viene pubblicizzato: in altre parole, abbiamo una fruizione della pubblicità che trascende il suo scopo: che è quello di vendere – direttamente o indirettamente – un prodotto (del resto, nemmeno gli stessi pubblicitari hanno, per tradizione, una bella nomea: basti pensare al famoso titolo del mémoire di Jacques Séguéla: “Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello”).
La domanda alla quale tenterò di dare una risposta è: dalle sue origini a oggi, la comunicazione pubblicitaria è diventata più semplice o più complessa?
Anzitutto: in questo testo parlerò di comunicazione pubblicitaria, non di marketing in senso lato. Il marketing si occupa di gestire i “punti di contatto” (touchpoint) fra l’azienda/marca e tutti i portatori di interesse (stakeholder): non solo i consumatori finali dunque (fattuali e/o desiderati), ma anche i fornitori, i dipendenti, le istituzioni territoriali eccetera. Sebbene nel marketing rientrino moltissime cose (anche il modo con il quale la centralinista risponde al telefono è marketing), solitamente lo si articola nelle “quattro P” teorizzate da Jerome McCarthy: Prodotto, Prezzo, Punto vendita, Promozione (la pubblicità, appunto).
Da quanto tempo esiste la pubblicità? Da sempre. O meglio: da quando hanno iniziato a esserci dei beni da vendere e un mezzo per poterli promuovere: dallo strillone di strada all’avviso inchiodato a un albero. Non potendo iniziare da Adamo ed Eva (anzi: da Pompei, dove certi affreschi, secondo gli archeologi, avevano come funzione quella di promuovere le case di piacere), identifico come punto di partenza abbastanza condiviso l’Inghilterra della metà del XIX secolo: la crescita dell’advertising ha assecondato la rivoluzione industriale ed è stata aiutata e favorita dalla diffusione del quotidiano come mezzo di comunicazione di massa.
I primi manifesti pubblicitari vengono commissionati agli artisti: nel 1862, Thomas J. Barrett, della A&F Pears, produttrice del Sapone Pears, acquista da John Everett Millais un quadro raffigurante un ragazzino che guarda ammirato delle bolle di sapone. “Bubbles” – rassicurante e sentimentale – riscuote un enorme successo, e diventa una delle prime icone della pubblicità. Nella Francia della Belle Èpoque, si prestano alla pubblicità artisti come Jules Chéret (per il cabaret delle Folies-Bergère), Henri de Toulouse-Lautrec (per il Moulin Rouge), Alphone Mucha (per moltissimi marchi, tra i quali lo champagne Moët & Chandon. In questa fase pionieristica, l’obiettivo della comunicazione pubblicitaria è quello di far conoscere e ricordare il marchio e il prodotto (e ottenere quella che in gergo si chiama awareness, consapevolezza di marca) attraverso immagini esteticamente gradevoli e testi per lo più descrittivi.
Se i pubblicitari europei si rivolgono agli artisti famosi per la realizzazione dei loro manifesti, negli Stati Uniti emerge, all’inizio del XX secolo, una nuova generazione di illustratori specializzati. Joseph Christian Leyendecker crea, per la Arrow Collars & Shirts, “l’uomo Arrow”: bello, elegante, carismatico, distaccato il giusto. L’impatto che queste illustrazioni hanno sui consumatori è al là di ogni aspettativa: nonostante l’uomo Arrow sia palesemente un personaggio inventato, riceve una quantità di lettere, sia dalle donne (che lo desiderano) che dagli uomini (che desiderano assomigliargli).
Anni Cinquanta, New York, Madison Avenue: probabilmente il posto e il momento perfetti per lavorare nell’advertising. Nel decennio ’50-’60 (ma anche un poco oltre) le agenzie di Madison Avenue controllano metà della spesa totale in pubblicità degli Stati Uniti e contribuiscono a modellare una vera e propria mitologia attorno alla figura dei pubblicitari: strenui lavoratori fino a sfiorare l’ossessività (e il ridicolo), forti fumatori, forti bevitori (chi ha visto la serie “Mad Man”?). È in questo periodo che si comincia a ragionare sulla “brand personality”, a proporre, cioè, la marca come se fosse una persona con la quale identificarsi (facendo un parallelo letterario, è come se ci si ponesse, per la prima volta, il problema della voce narrante). Nel 1951 David Ogilvy viene incaricato dalla Hathaway, una piccola azienda di abbigliamento del Maine, di lanciare una compagna su scala nazionale per una linea di camicie di fascia media. Ogilvy crea “L’uomo in camicia Hathaway”: bello ed elegante, ma con una benda da pirata a coprirgli un occhio. Il successo è strepitoso e Ogilvy lo attribuisce all’”appeal della storia”: «Il lettore dà un’occhiata alla fotografia e si dice “Cosa succede?”. Poi legge il testo e lo scopre. La trappola è già scattata.» Ogilvy utilizza la pubblicità Hathaway per ricreare «una serie di situazioni in cui mi sarebbe piaciuto ritrovarmi: dirigere la Filarmonica di New York alla Canergie Hall, suonare l’oboe, copiare un dipinto di Goya al Metropolitan Museum, guidare un trattore, navigare in barca a vela, comprare un Renoir e così via.». Questa logica “multisoggetto” farà scuola (la ritroviamo, a esempio, decenni più tardi nella pubblicità Jagermeister).
Altra icona (estremamente longeva) degli anni Cinquanta è l’Uomo Marlboro. Che viene creato a Leo Burnett per risolvere un problema di marketing (nello specifico, per ottenere un riposizionamento della marca). Il committente, la Philip Morris, voleva cambiare immagine alle sigarette Marlboro, considerate un brand per donne. Leo Burnett si presenta in agenzia, una domenica mattina, con in mano una rivista. E sulla rivista, in copertina, c’è un cowboy. «Conoscete qualcosa di più virile di un cowboy?» dice. Leo Burnett – ostile alle ricerche psicologiche e motivazionali che in quegli anni cominciavano a diffondersi nelle agenzie (nel 1957 Vance Packard scrive il famosissimo* saggio“I persuasori occulti”) – motiva la sua scelta così, ai dirigenti della Philip Morris: «Il cowboy è un simbolo quasi universale di virilità… è come se avessimo in agenzia il Dr Freud. Non lo abbiamo. Siamo stati guidati dalla ricerca, dalla passione e dal buonsenso.»
Gli esempi citati fin qui presentano un approccio “classico” alla comunicazione pubblicitaria. Si trasformano i marchi in personaggi, ma rifacendosi a significati sociali preesistenti. Il percorso è grossomodo questo: so chi sono e qual è il mio posto nella vita > il marchio sfrutta associazioni già codificate (gli stereotipi sulla virilità, nel caso Marlboro) > questo è il marchio adatto a me e al mio ruolo > acquisto questo marchio. Il processo è semplice e lineare: il bisogno del consumatore è chiaro, la promessa della marca è altrettanto chiara, il prodotto è centrale nel soddisfacimento di questa promessa.
Le cose cominciano a cambiare negli anni Ottanta. La nuova comunicazione pubblicitaria, anziché limitarsi a soddisfare i bisogni, li crea. Il percorso diventa questo: non so bene chi sono e qual è il mio posto nella vita > questo marchio mi offre un modello coerente, credibile, interessante > mi aiuta a definire la mia identità > acquisto questo marchio. Il processo è più complesso: il bisogno del consumatore non è più così chiaro, la promessa della marca è meno precisa e definita e opera più che altro nella creazione di un immaginario, il marchio diventa un assoluto trasformando il prodotto in un semplice vettore di significati. Un esempio molto noto (e, anche qui, molto longevo) è Absolut Vodka. Ma pensiamo anche a “1984”, lo spot di lancio del Macintosh, diretto da Ridley Scott in stile Blade Runner: il lavoro è, qui, è tutto sullo spirito anticonformista e ribelle della marca, non su di un particolare beneficio garantito dal prodotto.
Dagli anni Novanta in poi la pubblicità diventa sempre più complessa, dove per complessità si deve intendere “densità di significati”. Il messaggio viene affidato più all’immagine che al testo (i testi si accorciano fino a scomparire, a volte, tanto che si parla di iconismo della comunicazione) e spesso si fa implicito, richiedendo una decodifica da parte del destinatario. Si lavora ampiamente con le figure retoriche – sia di suono che di significato – e i testi sono molto allusivi e poco argomentativi: i lunghi bodycopy, i lunghi dialoghi, i lunghi soliloqui dello speaker sanno di antiquato, ma anche le immagini che, per essere esaustive, hanno bisogno di testi didascalici.
Un rallentamento in questa corsa verso la complessità lo vedremo forse nei prossimi anni. Il motivo è che i grossi brand – quelli che muovevano la gran parte degli investimenti pubblicitari e che lavoravano sugli immaginari di marca e sulla stratificazione di significati – hanno il fiato corto. «Che bisogno c’è di avere un marchio preferito quando con Google o Amazon possiamo sceglierlo sul momento e per il momento? E allora lentamente i megabrand si dissolvono, perché diventa inefficiente il broadcast pubblicitario che ne aveva fatto la fortuna. Ma allo stesso tempo nascono nuovi brand, più piccoli, più di nicchia.» La pubblicità, peraltro, funziona sempre meno: perché il carico informativo oggi è eccessivo e non riusciamo più a sostenerlo e perché preferiamo fidarci dei consigli degli amici, dei parenti e, soprattutto, degli strumenti di ricerca e confronto che la Rete ci mette a disposizione: «Saranno Amazon, Google, Facebook, Apple e pochissimi altri “connettori” i veri unici megabrand del futuro, intesi nella vecchia accezione.» E ai brand più piccoli, più di nicchia, cosa chiediamo? Semplicità e chiarezza nella comunicazione della promessa: che, diversamente da un tempo, non è più generalista (il “Potete scegliere qualunque modello Ford purché sia il Modello T, di qualunque colore, purché sia nero” della Ford Modello T), ma tagliata sulle esigenze di ognuno di noi. Il consumatore, oggi, vuole soprattutto essere ascoltato: e infatti le pagine Facebook dei marchi vengono utilizzate specialmente come customer service, per fare domande sul tal prodotto, per lamentarsi del tal difetto, per chiedere dove si trova il punto vendita più vicino, eccetera. (Il virgolettato è di Gianluca Diegoli).
Le prime merci pubblicizzate su scala nazionale, negli Stati Uniti, sono state le “patent medicines”, ovvero i preparati farmaceutici. La scena ci è familiare grazie ai film Western: il ciarlatano in piedi su una cassa di legno, in una polverosa cittadina di frontiera, che declama le virtù delle sue pozioni, e ascolta la massaia con il mal di denti (e prescrive una posologia) e il vaccaro con il mal di stomaco (e prescrive una diversa posologia), e poi via, in una nuova cittadina, da altre massaie e diversi vaccari. Non si tornerà a quello, certo: però qualcosa, in una direzione simile, si sta muovendo.
Nota: Ho utilizzato, qui, esclusivamente casi americani. Le tendenze italiane non sono qualitativamente diverse. A fare la differenza sono però i tempi: perché l’Italia, per quanto riguarda la pubblicità, è un paese che arriva costituzionalmente in ritardo («Quello che si vede a Cannes – il festival più importante dell’advertising – lo si rivede in Italia un anno dopo» si usa dire).
La pubblicità italiana è stata favorita e penalizzata da una anomalia: Carosello. Carosello, che «era fortemente diseconomico, e funzionava grazie a un regime di monopolio, con spazi costosissimi in un momento in cui la domanda era molto superiore all’offerta» (il virgolettato è di Annamaria Testa), da un lato ha permesso – e per la durata e per il format – di creare personaggi memorabili che hanno segnato non solo la pubblicità, ma anche la cultura del nostro Paese. Dall’altro lato, costringendo i pubblicitari a contenuti e toni educativi, rassicuranti e riposanti (la metà degli spettatori era costituito da bambini), ha livellato enormemente le proposte creative. Se oggi guardiamo a Carosello con nostalgia (in effetti aveva un tipo di pubblico che oggi le agenzie potrebbero solo sognare), non va dimenticato che la Rai, all’epoca, se ne vergognava, perché la pubblicità mal si combinava con l’idea di una televisione che doveva avere una funzione principalmente pedagogica (da qui la necessità di mascherare lo spot da show, tanto che il nome del prodotto si poteva nominare solo nel codino finale).
(poi ci sono, come in tutte le cose, le eccezioni eclatanti: si veda l’esempio di una pubblicità anticonformista come quella realizzata da Emanuele Pirella e Oliviero Toscani per Jesus Jeans. Correva l’anno 1973)
*E altrettanto discusso. «Perché» spiega John Hegarty, «se tutto quello che c’è scritto fosse vero, saremmo in grado di vendere qualsiasi cosa a chiunque.» Cosa che ovviamente non è.