La scrittura come progetto / 1 – Tempo e luce
Una premessa: questo che state leggendo non è un testo di critica letteraria, o di critica del design, della fotografia o di qualsivoglia altra forma d’arte che verrà citata (anzi: utilizzata). È invece un testo che si propone – limitatamente alla mia esperienza e alle mie conoscenze – di capire e mostrare alcuni aspetti del processo creativo (s’intenda: di creazione di un testo letterario o di uno scatto fotografico o di un pezzo di design e via dicendo). M’interessa parlare, con questa serie di post (li ho chiamati: “La scrittura come progetto”), non delle cose in sé, e neppure di come queste cose sono fatte: ma del come e del perché si è riusciti a farle. Partire dal risultato, per denudare il processo.
Spiegando e mostrando (ci saranno parecchie immagini), farò una cosa che a me piace molto: costruire parallelismi fra discipline e arti diverse. Mescolerò testi letterari a mobili e lampade. Accostando ciò che differisce, conto di far vibrare per affinità ciò che accumuna: il progetto, appunto.
Alla fine di ogni post ci saranno alcune domande. Si tratta di domande che – non tutte, non sempre – mi pongo nella fase di progettazione di un testo o durante la stesura e talvolta anche nelle riscritture. Sono domande piuttosto libere, secondo me, e che possono adattarsi anche a un fotografo, a un designer, a un pittore a. Stanno lì, in chiusura, a testimonianza del carattere operativo di questa serie.
Pronti? Partiamo!
Tempo e luce. Da qualche mese, sono le prime due parole che mi vengono in mente quando penso alla scrittura.
Ne scrive – più (nel caso del tempo) o meno (nel caso della luce) direttamente – anche Italo Calvino, nel suo bellissimo e citatissimo “Lezioni americane” (Oscar Mondadori, 2012).
Sul tempo: “Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio di immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera”.
Sulla luce: “Cominciare una conferenza, anzi un ciclo di conferenze, è un momento cruciale, come cominciare a scrivere un romanzo. E questo è il momento della scelta: ci è offerta la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili; e dobbiamo arrivare a dire una cosa, in un modo particolare. […] Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero.”
Se l’utilizzo della prima citazione è chiaro – Calvino parla, dichiaratamente, di tempo – sull’utilizzo della seconda potrebbero nascere dubbi: cosa c’entra la luce con la scelta? C’entra: perché in narrazione (ma non solo in narrazione) scegliere vuol dire realmente illuminare: accendere un riflettore su qualcosa, lasciando in ombra tutto il resto. Attenzione: lasciare in ombra non significa eliminare o non far esistere. Significa non far vedere. Quel che io non mostro lo devo comunque immaginare: e spesso ciò che si nasconde – ma che io pure ho avuto cura di far vivere nella mia testa – è importante tanto quanto ciò che si svela. Rimane all’interno di ciò che è svelato e ne determina la densità. Oppure gli fa da silenzioso sostegno.
È sufficientemente chiaro? Forse no. Ma la chiarità completa arriverà poi, spero, con gli esempi. Mi premeva, per il momento, accendere una prima lampadina.
Calvino dice anche che questo “momento decisivo per lo scrittore” (il momento in cui si inizia), questo “distacco dalla potenzialità illimitata e multiforme” per avvicinarsi all’esistenza – almeno come possibilità – richiede l’accettazione di due cose: limiti e regole. E non sono, limiti e regole, alla base di ogni progetto?
Mettiamo insieme queste quattro parole – tempo, luce, limiti, regole – e tentiamo una definizione: Scrivere significa imporsi continuamente limiti e regole: sul che cosa illuminare e sul per quanto tempo farlo.
Proviamo ora a uscire dalla scrittura.
La prima arte che a me viene in mente parlando di tempo e luce è la fotografia.
Una fotografia, del resto, è una vera impronta di luce o, come scrisse William Henry Fox Talbot nel suo “The Pencil of Nature”, un’immagine ottenuta grazie alla “the mere action of Light”. Ma la fotografia cela in sé un paradosso: pur se generata dalla luce, ha bisogno della sua assenza per restare in vita. Se protratto troppo a lungo, il processo che la fa esistere ne determina la morte: esso va bloccato, con un misurato tempo di esposizione e successivamente con il fissaggio. Non solo: la luce continua a far morire la fotografia anche dopo che è stata scattata e stampata: la carta ingiallisce, i colori sbiadiscono e virano…
Dunque la fotografia ha molto a che fare sia con la luce, sia con il tempo. E con la luce in quanto scelta? in quanto decisione di far vedere qualcosa e di non far vedere qualcosa d’altro?
Prendiamo quest’opera di Mario Cresci: “Slittamenti su pavimento”, dalla serie “Accademia”, del 1994. Si vede un pavimento a scacchi, si vede il basamento di una colonna. Il resto: nero. L’immagine ha una sua forza, ma questa potrebbe limitarsi al puro e semplice impatto grafico – chiaro/scuro, niente mezzi toni. Leggiamo ora questa contestualizzazione critica di Michele Smargiassi: “Erano anni in cui dalla fotografia si pretendevano sicurezze illuministe. Cresci si incaricò di sottoporle a critica. Non c’è suo lavoro fotografico sulla cultura materiale, sui musei, sugli oggetti d’affezione, sulle forme dell’arte, che non sia anche una verifica dei poteri, dei limiti, degli inganni della fotografia. Un quadrato di sole sul pavimento diventa un rombo se cambi il punto di vista, un cerchio diventa un uovo” (viene da qui). Mario Cresci utilizza lo strumento artistico che più, per definizione, si ritiene essere mimetico, descrittivo del reale per mettere in discussione non tanto lo strumento in sé, quanto il concetto stesso di veridicità del reale.
Potremmo allora dire che: illuminare rende visibile qualcosa, non nel senso che – semplicemente – fa vedere; ma nel senso che comunica una visione.
Consideriamo ora due oggetti di design.
Il primo è “Kinesit”, una sedia da ufficio (anzi: un’intera collezione di sedie da ufficio), disegnata dallo studio Lievore Altherr Molina per Arper. In questa seduta operativa c’è qualcosa di più (qualcosa che viene illuminato) e qualcosa di meno (qualcosa che non viene illuminato) rispetto alle altre sedute operative presenti sul mercato. Il qualcosa in più è il colore: perché “Kinesit” è stata progettata in una gamma piuttosto ricca di varianti cromatiche, laddove la classica seduta operativa è nera o al massimo grigio scuro o rosso scuro o blu. Il qualcosa in meno è la tecnologia: perché “Kinesit” non ha quell’aspetto da macchinario spaventevole che è caratteristico delle tradizionali sedie da ufficio. Attenzione: la tecnologia esiste, non è stata eliminata. Semplicemente, sia i comandi per regolare l’altezza, sia il meccanismo che permette il movimento sincronizzato, sono stati nascosti sotto. Fanno il loro lavoro, ma non si fanno vedere. Nascondere la tecnologia permette di far vedere (illuminare) dell’altro: la relazione – comoda, affettuosa – fra l’oggetto e chi lo utilizza. Il colore – che facilita la personalizzazione, il poter scegliere quella sedia perché meglio si adatta alla mia personalità o all’ambiente dove voglio vivere (lavorare, in questo caso) – rimarca questa visione. Ma, come ho detto, questa visione si nutre degli opposti: sia di ciò che viene illuminato, sia di ciò che viene nascosto. È la ricomposizione di un paradosso.
Il secondo oggetto è “Spokes”, una lampada progettata da Garcia Cumini per Foscarini. Anche in “Spokes” si comunica una visione tramite sottrazione. Provate a guardarla: è un oggetto perfettamente simmetrico, che nasce dall’osservazione dei raggi di una bicicletta. Tutto si gioca sul contrasto: fra vuoti e pieni, fra dentro e fuori, fra ombra e luce… Sembra tutto qui. E invece, guardando meglio, ci si rende conto che qualcosa manca: ci sono due fonti luminose – una sopra e un’altra sotto; ma dov’è il cavo che le alimenta? Non esiste nulla al di là dei tondini in metallo, nel corpo vuoto della lampada. Il cavo elettrico ovviamente c’è, ed è invisibilmente alloggiato all’interno di uno dei raggi. Anche qui, il paradosso: la presenza della tecnologia attraverso la sua negazione (o la negazione della tecnologia attraverso la sua presenza). Ma non ci si accorge subito, non si capisce subito: occorre lo sguardo, protratto. Occorre il tempo.
Sia Arper che Foscarini trasmettono una visione (s’intenda: un “come vorrei che fosse il mondo”): la tecnologia a servizio dell’uomo. Lo fanno illuminando qualcosa e non illuminando qualcosa d’altro (ma senza cancellare). Lo fanno, peraltro, inserendosi in una tradizione.
La riconoscete? È un classico del design italiano: la calcolatrice “Divisumma 18”, progettata da Mario Bellini per Olivetti nel 1973. È uno dei primi tentativi di vedere l’elettronica come produttrice di organismi simili alla fisiologia umana – quasi dei replicanti ante litteram alla Matrix – e quindi di affrontarla con un progetto che si allontana radicalmente dalla precedente epoca della meccanica. I tasti: sono integrati in una membrana flessibile in gomma che riveste la macchina come pelle. Il colore: è un giallo acceso.
Quando si comunica una visione, lo si fa sempre collocandosi – o per continuità o per rottura – in una tradizione. È importante conoscerla, questa tradizione. Ma di questo parlerò in uno dei prossimi post.
Torniamo alla scrittura e riprendiamo la nostra definizione: Scrivere significa imporsi continuamente limiti e regole: sul che cosa illuminare e sul per quanto tempo farlo.
In una descrizione, devo stabilire cosa mostrare e cosa no. In un dialogo, quali battute esporre e quali lasciare sottintese. In un monologo interiore, quali pensieri far uscire e quali lasciare nascosti. Ma quello che viene mostrato, quello che viene sottinteso, quello che resta nascosto comunque esiste. Va immaginato. La povertà e la rigidità di certe descrizioni, di certi dialoghi, di certi monologhi eccetera deriva spesso – questa è l’esperienza che ho fatta io – dalle troppe cose dette e dalle troppo poche cose immaginate. Si fa l’errore di immaginare solo quello che si deve scrivere. E quello che viene scritto appare poco denso, poco caratterizzato. Tutto è in luce, ma manca il buio che – per contrasto – a questa luce dia un senso. È importante immaginare molto. Immaginare di più di quello che si mostra. Immaginare rassegnandosi allo spreco (che poi spreco non è: è piuttosto una non esibizione).
E poi il tempo. Per quanto tempo illuminare ciò che si è deciso di illuminare: in una descrizione, in un dialogo, in un monologo eccetera?
Le strade, a mio parere, sono due: l’analisi e la sintesi.
L’analisi scompone, dilata, indugia, parcellizza. Leggiamo un passo da Alain Robbe-Grillet, un maestro dello sguardo analitico. Viene da un racconto (anzi: da un’istantanea) che titola “Un sottopassaggio” e che è contenuto nella (troppo) breve raccolta “Istantanee” (Einaudi, 1963).
“Una sparsa folla di persone frettolose, che vanno tutte alla medesima andatura, percorre un corridoio privo di passaggi trasversali, delimitato all’una e all’altra estremità da una curva a gomito, ottusa, ma tale da occultare completamente gli sbocchi terminali, e coi muri guarniti, a destra come a sinistra, di manifesti pubblicitari tutti identici susseguentisi a eguali intervalli. Essi rappresentano una testa femminile, quasi altrettanto alta da sola quanto una delle persone di statura normale che le sfilano davanti, con passo rapido, senza volgere lo sguardo.
Quella faccia gigantesca, coi biondi capelli ondulati, gli occhi contornati da lunghissime ciglia, le labbra rosse, i denti bianchi, si presenta di tre quarti, e guarda sorridendo i passanti che arrancano e la oltrepassano uno dopo l’altro, mentre accanto a lei, sulla sinistra, una bottiglia di bibita effervescente, inclinata di quarantacinque gradi, volge l’imboccatura verso la bocca dischiusa. La dicitura è scritta in caratteri corsivi, su due righe: la parola “ancora” posta al di sopra della bottiglia, e le due parole “più pura” al di sotto, nella parte bassa del manifesto, su una linea obliqua lievemente ascendente rispetto al bordo orizzontale di questo.”
Visto? Ogni elemento viene scandagliato, approfondito, girato in lungo e in largo. Ogni elemento – dalla faccia ai capelli ai denti (e stiamo parlando di un banale manifesto pubblicitario!) – assume forma peso e consistenza quasi spropositati.
Ora consideriamo il farsi di questo approccio nel design.
I mobili disegnati da Ettore Sottsass per Memphis negli anni Ottanta (quella qui sopra è la libreria “Carlton”, del 1981) sono assai noti. Si inseriscono in un movimento chiamato Nuovo Design Italiano – assieme a Memphis altro illustre portavoce fu lo studio Alchymia – che esprimeva una forte discontinuità rispetto al design del periodo precedente. Era una discontinuità non solo formale, ma anche (soprattutto) filosofica: una società complessa come quella degli anni Ottanta (dobbiamo citare il postmodernismo? citiàmolo) richiedeva un design altrettanto complesso. Ecco dunque (date un’altra occhiata alla nostra “Carlton”) che ogni componente del prodotto viene trattata come un segno autonomo, con materiali, colori, decori diversi. Il risultato è fortemente espressivo, ma non si tratta di una espressività gratuita. Potremmo dire che è questa stessa espressività formale a farsi funzione: perché la prestazione dell’oggetto non si esaurisce nella relazione tecnica con chi lo utilizza (una libreria serve per contenere i libri), ma tende a stabilire con lui un rapporto di natura affettiva e simbolica.
Se l’analisi divide e – come risultante – ingigantisce (date un’occhiata alla serie “Timed” della fotografa Katrin Korfmann), la sintesi raccoglie, condensa, conchiude.
“La sventurata rispose”: stando a Wikipedia, “la più famosa aposiopesi della letteratura italiana”. In ogni caso, il risultato di un notevolissimo lavoro di sintesi: dato che nella prima stesura del romanzo – il “Fermo e Lucia” – Manzoni aveva descritto molto dettagliatamente il legame proibito fra Gertrude (anzi, Geltrude) ed Egidio, culminato in un delitto.
“Pedro Páramo” è un altro magnifico esempio di sintesi: Juan Rulfo ha asciugato il romanzo di riscrittura in riscrittura, ma quel che è stato apparentemente tolto alla fine vive, esiste. E la scrittura è densissima.
Ora guardiamo questa foto.
È uno scatto di Hiroshi Sugimoto, dalla serie “Theaters”.
È Sugimoto stesso a raccontare la genesi del progetto: “One night I had an idea while I was at the movies: to photograph the film itself. I tried to imagine photographing an entire feature film with my camera. I could already picture the projection screen making itself visible as a white rectangle. In my imagination, this would appear as a glowing, white rectangle; it would come forward from the projection surface and illuminate the entire theater. This idea struck me as being very interesting, mysterious, and even religious.”
Uno scatto che contiene l’intera durata del film: ecco una perfetta rappresentazione visiva della densità della sintesi.
E con le parole?
MATTINA
M’illumino
d’immenso
Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
Della densità di Ungaretti ci parla Tiziano Scarpa in questo articolo: che invito a leggere e rileggere per intero. Estrapolo la chiusura finale: “Come abbiamo visto, a un certo punto Ungaretti decide che non è più il caso di spiegare come ha fatto a vivere un momento apicale. Si limita a enunciare un picco estatico dello spirito. All’inizio, in Cielo e mare della cartolina a Papini, si offre come un esempio che, volendo, potrebbe essere imitato, utilizzando certi mezzi e certi comportamenti; alla fine, in Mattina, si mostra e basta, ostenta una condizione che ha vissuto. Il cielo e il mare non ci sono più: e il “moto di sguardo”, da talmente breve che era, si è ridotto a nulla, è scomparso. Ma le parole che restano non rimangono le stesse. In apparenza sì, sono perfettamente uguali a prima; e invece, con la scomparsa della spiegazione di come si fa a illuminarsi d’immenso, diventa molto più densa una parola appena accennata: “M’. È il pronome accusativo di “io”, il suo complemento oggetto riflessivo: “mi”.” Via via che questa poesia si riduce all’essenziale, viene fuori sempre più netta l’indipendenza, l’autonomia, la potenza dell’atto di volontà del protagonista. “Sono io che m’illumino d’immenso. Sì, certo, mi è capitato di mattina, in un paesino, durante la guerra, ma quel che c’era intorno conta poco, non ha importanza aver dato un’occhiata al cielo, né che si vedesse o no il mare: non ho avuto bisogno di apparati né di scenografie. Ho fatto tutto da me”.”
La sintesi è una concentrazione: di primo acchito, può manifestarsi come assenza, addirittura come povertà.
Due ultimi oggetti.
Il primo è il sistema “CUB 8”, progettato da Angelo Mangiarotti per Poltronova, nel 1967. È un esempio di parete attrezzata: un prodotto che riscosse molto successo durante gli anni Sessanta. La parete attrezzata rappresentava il futuro, il progresso (se vi fate venire in mente il “We choose to go to the moon speech” di John F. Kennedy o gli interni di “2001 Odissea nello spazio” di Kubrick fate bene): il superamento dell’idea tradizionale di arredo con un sistema integrato di contenitori lineari e neutri. Un prodotto universale dove, alla fine, a scomparire è proprio il progetto dal quale è nato: invisibile, dietro la voluta anonimità del risultato. E quale visione comunica questa assenza? il mito fordista del prodotto definitivo per un mercato infinito e di un unico colore – il bianco in tutte le sue sfumature.
Il secondo prodotto è l’appendiabiti “Sciangai”, progettato da Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi per Zanotta, nel 1974. “Sciangai” incarna, con la sua pulizia di forme e la scelta di un solo materiale – il legno non trattato – quel modello di austerità sposato dai progettisti più politicamente impegnati a partire dagli anni Settanta. Eppure questa sottrazione comunica (ed è questa la visione) due fallimenti: quello certo del vecchio (una società orientata al progresso, e ai consumi privati come motore di questo progresso) e quello probabile del nuovo (l’austerità, appunto). Perché la ricerca riduttiva, nel design, si è sempre scontrata con un paradosso: l’impossibilità di togliere cose dal mondo se non attraverso cose che teoricamente si sostituiscono, ma praticamente si affiancano, a quelle già esistenti. E la densità della sintesi sta proprio in questo paradosso.
Abbiamo parlato fin qui di regole, limiti, luce, tempo, analisi, sintesi. Abbiamo dato (ho cercato di dare) alcune risposte. Avevo promesso, però, anche le domande. Eccole: sono quelle che la me-stessa-che-progetta fa alla me-stessa-che-scrive.
Le cose che hai deciso di mostrare (illuminare) sono le più importanti? Oppure sono le prime / le sole che hai immaginato?
Le cose che hai deciso di non mostrare (non illuminare) sono le meno importanti? Oppure non le mostri (non le illumini) perché non sei riuscita / non hai voluto fare la fatica di immaginarle?
Che visione stai comunicando attraverso le cose che mostri? E attraverso le cose che non mostri?
Se mostrassi quello che hai deciso di non mostrare cosa succederebbe? Se non mostrassi quello che hai deciso di mostrare cosa succederebbe?
Come puoi gestire le cose che hai deciso di mostrare? Analizzando? Sintetizzando? Perché l’analisi? Perché la sintesi?
Se anziché analizzare sintetizzassi, cosa succederebbe? Se anziché sintetizzare analizzassi, che cosa succederebbe? Quale dei due risultati è più coerente con la visione che vuoi comunicare?
Lunedì mattina sono andata a camminare con mio figlio a Cison di Valmarino, lungo la Via delle acque. È un posto molto bello e – direi – molto narrativo: si costeggia il Rujo per un tratto e il paesaggio prende forme diverse, si compone in scenari variegati. Si attraversano i prati con l’erba alta, poi si entra nel bosco e lì il sentiero è un poco costruito dalla natura – in un tempo di centinaia, migliaia di anni – e un poco costruito dall’uomo, in un tempo molto più breve. L’acqua si segmenta, si attorciglia, si snoda, si libera, si sfoga, si ripartisce in rivoletti, pozze stagnanti, cascatelle, precipizi, piccoli gorghi, s’infiltra, filtra tra le rocce spruzzate di muschio e bagna i ciclamini che spuntano a gruppi dove l’erba è più rada e spugnosa. Mentre camminavamo, mio figlio – che ha sette anni, quasi otto – ha detto: “Mamma. Sto girando un video nella mia testa. S’intitola: Bellezze della natura”. Non succede spesso, che mio figlio immagini cose: ha una passione e una predisposizione per la logica, per i numeri, per lo più. Mi sono incuriosita. “Com’è questo video?” ho chiesto, “cosa stai vedendo esattamente?” Stava vedendo, neanche a dirlo, già la suddivisione in puntate. “Saranno cento” ha detto, “e ci sarà tutto quello che c’è qui”. Cento puntate. Caspita. Abbiamo continuato a parlarne. “Cento puntate” ho suggerito io, “mi paiono troppe”. “Ma se le puntate sono meno” ha detto lui, “come facciamo a farci stare tutto?” “Allora non ci faremo stare tutto”. Gli ho proposto di scegliere: un aspetto che lo interessava in modo particolare. Una visione. Avremmo guardato ogni cosa – gli ho spiegato – ma avremmo mantenuto per il video solo ciò che era coerente con quella visione. Dopo un bel po’ di passi (eravamo arrivati alla fine del sentiero ormai, e stavamo per tornare indietro), mio figlio si è deciso per l’acqua: tutti i movimenti dell’acqua – dalla fontana che avevamo visto all’inizio della via (con l’acqua ghiacciatissima!), al quasi laghetto appena sbucati dal prato, ai mulinelli intorno alle rocce con dislivelli più o meno pronunciati, alla sfumatura verdeviola che prendevano certi tratti del torrente, quando circondato dagli alberi che lasciavano filtrare un po’ sì e un po’ no il sole. Con questa visione, mio figlio ha scartato di sua iniziativa due grossi ciclamini rosa intenso (li ho fotografati per me), così pure ha scartato le liane pencolanti dagli alberi. Poi ci siamo trovati difronte all’albero che vedete qui sotto. Che, c’è poco da fare, è maestoso e particolare e bellissimo. A mio figlio piangeva il cuore all’idea di lasciarlo fuori dal video. E come dargli torto? Allora mi ha detto che, tutto sommato, quelle radici che affioravano dal terreno molle e che sul terreno scorrevano e si attorcigliavano e formavano mulinelli (non sembrano mulinelli?), quelle radici lì (non vedi, mamma?) avevano proprio lo stesso comportamento dell’acqua. E che, data questa similarità di comportamento, essendo quelle radici così – come dire? – acquatiche avremmo magari potuto… Alla fine lo abbiamo fatto rientrare: l’albero qui sotto è diventato “L’albero dalle radici d’acqua” e ha trovato degna collocazione nella puntata numero dodici (le puntate sono diventate sedici in tutto). Perché le regole, i limiti – così come la forma – non sono gabbie: sono nidi. Ma di forme, gabbie e nidi parleremo nel prossimo post.
dm/ 13.08.2017
(Postilla del giorno dopo – mi è venuto un dubbio e allora sono venuto a precisare. La “modesta riflessione” è ovviamente la mia, notturna e sbrigativa come la stanchezza. Non vorrei qualcuno fraintendesse – non tu, ma chi passa da qui. Ri-ciao).
valentina_durante/ 14.08.2017
Ciao Daniele (e certo che mi ricordo :-))
Ho aspettato prima di risponderti perché volevo postare la seconda parte della “serie”, dove parlo del rapporto tra forma e contenuto (http://www.valentinadurante.com/la-scrittura-come-progetto-2-forma-e-contenuto/). Perché quando tu dici “il testo è un sistema coerente o meno, efficace o meno efficace, per realizzare qualcos’altro nella mente di chi legge” a me viene in mente quel che io intendo per “forma”. Ossia: mi ritrovo in gran parte se non in tutto quello che scrivi, ma con termini diversi. Sul “sentire concretamente il lettore” sono perfettamente d’accordo: ed è quello che accade anche a me, quando scrivo. Per la verità non è neppure l’io-autore che sente il lettore, ma l’io-narrante. Ragion per cui, prima di iniziare a scrivere alcunché, mi occorre “sentire” con precisione la voce dell’io-narrante: il ragionamento astratto sul progetto funziona, per me, in quanto costruzione di un ambiente favorevole al manifestarsi della voce. Mi piace immaginare il mio narratore come un inquilino che ospito in casa, e del quale mi metto al servizio finché la storia non è uscita tutta. Mettersi al servizio significa dedicare del tempo al narratore (anche, secondo me, in via esclusiva: io fatico a mantenere la scrittura come attività marginale, quando sono impegnata in un testo) e costruirgli un ambiente che lo faccia “stare comodo”: la progettazione mi aiuta in questo ma poi, comparso il narratore, comparso il lettore, scivola sullo sfondo e tutto è scrittura nel suo farsi. Ciao (e grazie per aver commentato).
dm/ 15.08.2017
Ho capito come la vedi (e la scrivi) tu. Mi prendo il secondo della serie. Ciao, e buona estate.
dm/ 12.08.2017
Una modesta riflessione sul senso e sulla destinazione d’uso del progetto di scrittura: distinguere tra testo e progetto, per come la vedo io, è meno produttivo rispetto al vedere entrambi, testo e progetto, come oggetti dello stesso tipo. Mi spiego meglio: io non scelgo di mostrare certi aspetti e tacerne degli altri, prima di scrivere, ma mi metto nei panni di chi leggerà (o della sua idealizzazione). Cosa vorrebbe vedere il mio lettore? E del resto non mi importa, cioè: quello che importa a me non importa. Perché considero il testo finale (frutto del progetto) un progetto anche quello. Per me il testo è progetto. Come a dire che il testo non è niente. È un sistema, coerente o meno, efficace o meno efficace per realizzare qualcos’altro nella mente di chi legge. Per me, insomma, il testo è un oggetto puramente ipotetico la cui realizzazione dipende dalla mente del lettore, da un agente esterno (a me, al progetto iniziale). Detto in un altro modo: il testo è progetto di un progetto di un’immaginazione che esiste solo nella mente del lettore.
Sostanzialmente non cambia granché. Ma in termini di tensione, di orientamento di chi scrive verso il proprio lettore, cambia l’importanza che do all’idea iniziale (la struttura, la trama, l’idea di stile). So che sto progettando un progetto. Mentre scrivo, invece, e metto in pratica (più o meno) quello che mi ero prefissato d’imbastire, so che scrivo un progetto. Ma un progetto di primo grado, diciamo. Il progetto dell’immaginazione del lettore. E quindi devo adattarmi, sentire concretamente il lettore, se così si può dire. (Dato che – è esperienza comune – il lettore si sente nel momento della scrittura, nel momento cioè in cui ci si rivolge con la propria voce a lui. Prima, ci si focalizza su se stessi, su ciò che si vorrebbe dire, sul possibile appunto. Poi avviene l’impossibile, ossia il contatto con qualcuno che non c’è lì, ma che ci sarà grazie al progetto, al testo. Ci sarà come immaginazione). Ecco, più o meno questo.
Questo ovviamente riguarda me, la mia esperienza.
Daniele (conosciuti in bottega)