Valentina Durante – Copy & Story | “La scrittura e il mondo”: una recensione impropria
Come un saggio di teoria letteraria può trasformarsi (tirandolo per i capelli) in un ottimo manuale di marketing
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Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti, Emanuele Zinato, La scrittura e il mondo”

 

Come un saggio di teoria letteraria può trasformarsi (tirandolo per i capelli) in un ottimo manuale di marketing

 

La scrittura e il mondo, Teorie letterarie del Novecento” di Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti ed Emanuele Zinato (Carocci editore) è un libro uscito qualche mese fa. E io, infatti, lo ho comperato qualche mese fa: ma lo sto leggendo solo da pochi giorni, non sono neppure a un quarto. Il primo motivo che rende questa una recensione impropria sta dunque nel fatto che il libro che andrò a recensire non lo ho neppure terminato.

Il secondo motivo riguarda invece il come.

Come ho intenzione di recensire “La scrittura e il mondo”? Non certo parlando di ciò di cui propriamente tratta: ossia di teorie letterarie. Di teorie letterarie io so poco o nulla (sto leggendo questo libro allo scopo): mi mancano le competenze per esprimere una valutazione o anche solo una qualche considerazione sensata.

Il saggio, però (perché di un saggio ovviamente si tratta), lo sto trovando interessante. Molto.

Scrivo narrativa da quasi tre anni e “La scrittura e il mondo” mi sta fornendo risorse e spunti per potermi guardare dal di fuori. Scrivendo, faccio cose delle quali non sono consapevole o delle quali sì, sono consapevole, ma non del tutto, o non perfettamente: la relazione che intercorre tra forma e contenuto, tra autore e narratore, tra il mio testo e altri testi (che sono venuti, che verranno), tra il mio testo e il contesto sono aspetti sui quali, scrivendo, mi trovo inevitabilmente a riflettere. Però sempre da una prospettiva interna. Vedere un testo con gli occhi di chi possiede strumenti interpretativi che io, per cultura indole e capacità, non possiedo è incredibilmente utile, per me. È utile sopratutto perché io non scrivo per esprimere me stessa. Non ho mai scritto un rigo per portare fuori da me qualcosa di me. Io scrivo per non esprimere me stessa, per creare qualcosa di altro da me: e se gli strumenti che la critica ha elaborato mi aiutano a capire meglio questo “oggetto esterno”, che spesso mi si presenta come qualcosa di semi-sconosciuto (e, per questo, talvolta, di piuttosto impressionante), ben venga.

Dunque potrei recensire impropriamente questo saggio non come un manuale sulla scrittura, bensì come un manuale di scrittura. Ma non è questo che intendo fare.

La scrittura e il mondo” mi è anche parso, fin dall’introduzione (anzi: specialmente dall’introduzione), un ottimo saggio di critica d’arte: nell’impianto metodologico modellato sulla tassonomia di Roman Jakobson (mittente, messaggio, destinatario, contesto, contatto e codice) e sviluppato conseguentemente in sei approcci critici (biografistico, ricezionista, filologico, intertestuale, storico-sociologico e formalista/strutturalista) mi ha ricordato l’introduzione di “Arte dal 1900, Modernismo, Antomodernismo, Postmodernismo” di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois e Benjamin H. D. Buchloh (Zanichelli). Con la differenza che nell’introduzione di “Arte dal 1900” gli approcci critici descritti sono solo tre: psicoanalitico (equivalente pressappoco all’approccio biografistico), storico-sociologico e formalista/strutturalista. La metodologia proposta nella “Scrittura e il mondo” – che trovo più completa – potrebbe essere applicata con soddisfazione, credo, all’analisi non solo della letteratura, ma anche delle arti figurative.

Dunque la recensione impropria di questo saggio potrebbe vertere su questo: sulla sua suscettibilità di essere adoperato come un manuale di storia critica dell’arte del Novecento. Ma, anche qui, non avrei le competenze per sostenere una recensione di questo tipo. E neppure m’interessa farlo.

Da quando scrivo con più costanza, consapevolezza e criterio – dunque da un anno e mezzo circa – ho iniziato a utilizzare la letteratura e la narratologia (per le competenze narratologiche che posso avere, limitate ed empiriche) anche nel mio lavoro. Io mi occupo di marketing e pubblicità: scrivo (sono, in gergo, copywriter), ma sviluppo anche analisi strategiche, per aiutare a definire il posizionamento della marca (sono, in gergo, strategic planner). Parlare di letteratura con i miei clienti (o ai miei clienti) si sta rivelando produttivo: e non solo come conversazione più o meno colta nelle pause caffè. In passato, mi capitava spesso di fare domande tipo: “Chi è che in azienda influisce maggiormente sul tono di voce della marca? È il titolare? l’ufficio marketing? l’ufficio prodotto?”. Nessuno capiva e io ottenevo quasi sempre risposte confuse, fumose e poco partecipi. Adesso invece chiedo (dopo opportuna contestualizzazione): “Chi è il narratore della storia che, come marca, state raccontando? chi è il Manzoni della situazione? (uso Manzoni perché so che “I promessi sposi” lo hanno letto tutti, volenti oppure obtorto collo, almeno una volta)”. E capisco che la gente capisce: che si mette a pensare, a costruire parallelismi, che azzarda delle risposte (che spesso stanno più in cielo che in terra, ma va bene anche così). Che si diverte, persino. Qualcuno si ripromette di riprendere in mano “I promessi sposi” la sera stessa, tornato a casa (poi magari non lo fa, ma almeno ci ha pensato). C’è chi si presenta, alla riunione successiva, vestito da Renzo Tramaglino (no, questo me lo sono inventato io).

Ora: non so se questo modo di agire sia irrispettoso nei confronti della letteratura. Resta il fatto che: funziona. Allora, mi chiedo: e se “La scrittura e il mondo” potesse essere accostato (dunque recensito) come un manuale di marketing?

Proviàmoci.

Nell’introduzione (ottima, peraltro: finalmente un’introduzione che fa il suo dovere, che è quello di in-trodurre appunto, di “portare dentro” l’argomento) si presenta, come già detto, l’impianto metodologico, sviluppato a partire dalle sei funzioni del discorso di Jakobson. Tenterò ora di rileggere questa metodologia secondo una prospettiva di marketing.

L’approccio biografistico, fondato sul Mittente, “si interroga sulla relazione fra l’autore e l’opera”. Inaugurato da Charles-Augustin de Sainte-Beuve, esso fa dipendere l’interpretazione e la valutazione di un testo dalle conoscenze che si hanno circa l’uomo che lo ha prodotto. L’autore, in altre parole, utilizzerebbe più o meno consapevolmente l’opera come simbolo o allegoria della propria storia personale (o dei propri fantasmi, secondo la visione psicoanalitica). Una situazione simile si produce, in azienda, quando la marca viene considerata una estensione dell’imprenditore- fondatore. Assai diffuso nelle piccole e medie aziende a conduzione famigliare (ma non solo), l’approccio biografistico dà luogo a frequenti esternazioni flaubertiane (“L’azienda sono io!”), ad altrettanto frequenti allusioni di carattere onirico-familista (“Ho realizzato il sogno di mio padre e di mio nonno e del mio bisnonno e del mio trisavolo” e via, su per l’albero genealogico) e a qualche deriva catastrofista (“Dopo di me – perché vado in pensione, perché venderò a un fondo d’investimento, perché i figli non ci sanno fare eccetera – il diluvio”). Ben dosato, questo approccio può certo fornire una guida e una fonte di ispirazione per i dipendenti. Portato all’eccesso, sfocia inevitabilmente nel paternalismo.

L’approccio ricezionista, fondato sul Destinatario, “si interroga sulla relazione tra l’opera e il lettore”. Per Wolfgang Iser “il testo letterario è intrinsecamente indeterminato e insaturo e proprio per ciò fruibile solo se e quando il lettore è disposto a saturarlo con i propri pensieri e le proprie esperienze ed emozioni”. In azienda, il ricezionismo è territorio indiscusso dell’area commerciale: per i commerciali, l’unico messaggio pensabile e possibile è quello che può essere recepito, accettato e valorizzato dai negozianti (dunque neppure dal consumatore finale) attraverso la rete vendita. La marca, in quanto contenitore di messaggi, esiste proprio in virtù di questa ricezione, accettazione e valorizzazione, dunque perché esiste il negoziante, non è altro che una sua proiezione. Questa visione, cronicamente afflitta da passatismi (“Si venderà quel che si è già venduto”), può degenerare in pericolose crisi identitarie nel caso di agenti plurimandatari e in un altrettanto pericoloso solipsismo nel caso di una rete monomarca omnipervasiva. In generale, un’azienda “ostaggio della rete commerciale” è un’azienda che rischia poco, che tende a conformarsi, che non sviluppa un pensiero strategico. Che non cresce.

L’approccio filologico, fondato sul Contatto, “si interroga sulle inferenze e i disturbi che possono intervenire nella trasmissione di un testo attraverso lo spazio e il tempo”. L’obiettivo del filologo è quello di ricostruire il significato originario di un testo, liberandolo da tutti i fraintendimenti accumulatisi nel tempo a opera di lettori e interpreti. Potremmo equiparare questa visione a quella di chi, in azienda, si occupa di branding, ossia di definire e trasmettere una identità di marca che sia coerente con i desiderata aziendali e, spesso, con una più o meno precisata “idea di autenticità”. Potenti rigurgiti di heritage marketing si impongono periodicamente, allorquando l’azienda affronta una fase di acquisizioni oppure di riassestamento oppure quando vi è un cambio di proprietà: allora si avverte l’urgenza di “ritornare alle origini”, di “recuperare l’antico spirito”, di ripristinare una coerenza, un “fil rouge”. Spesso ci si lancia nel restyling e nel vintage, andando a ripescare prodotti e packaging di dieci, venti, trent’anni prima. Posto che la cosa ha un suo senso, le operazioni rigidamente puriste sono sempre destinate alla frustrazione: perché, come ben spiega Gerald Zaltman, una marca è formata dall’insieme dei costrutti generati dall’azienda (mente dell’azienda) e dai consumatori (mente del mercato). Non esiste mai una vita autonoma, per la marca, all’interno di un vuoto pneumatico.

L’approccio intertestuale, fondato sul Codice, “si interroga riguardo all’incidenza di regole, convenzioni, canoni su ogni singola opera e sui rapporti tra questa e la letteratura precedente e seguente”. Secondo Julia Kristeva “ogni testo si costruisce come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo”. La comunicazione che, in azienda, risuona di altre comunicazioni è indiscutibilmente quella dell’ufficio stampa. Che si tratti di una realtà interna o (com’è frequente nel caso di piccole e medie aziende) di consulenti esterni, l’ufficio stampa si serve di un linguaggio (non di una lingua) che non è quasi mai espressione distintiva della marca, bensì il risultato di una stratificazione di linguaggi “da ufficio stampa” prodottosi nel’arco di decenni. Nei casi più fortunati, questo linguaggio è perlomeno settoriale (tutte le marche di design, a es., comunicano utilizzando un linguaggio da Marca Di Design Standard che rimane costante nello spazio e nel tempo). Nei casi più infelici, il linguaggio è trasversale, con abbondanza di espressioni genericissime come: “sintesi di tradizione e innovazione”, “leader del settore”, “evento straordinario”, “eccellenza del territorio”. Per verificare se il linguaggio del nostro ufficio stampa è un linguaggio da Ufficio Stampa, è sufficiente prendere un qualunque testo e sostituire il nome della nostra marca con quello di una marca concorrente. Se il testo sta in piedi, vuol dire che abbiamo un problema (di ufficio stampa o di identità aziendale). Se il testo resiste pure al cambio di categoria merceologica (a es. sostituendo “scarpe da uomo” con “divani imbottiti”) il problema è piuttosto grave.

L’approccio storico-sociologico, fondato sul Contesto, “si interroga sulla relazione tra l’opera e le circostanze storico-sociali dentro cui essa è stata prodotta, sia in quanto costituiscono oggetto della sua rappresentazione sia in quanto possono averla condizionata”. Se i testi parlano di una realtà “connotata in senso storico e sociale”, le marche si collocano in uno spazio di intersezione fra i desideri e i bisogni dei consumatori e le proposte delle marche concorrenti volte al soddisfacimento degli stessi. La concorrenza può essere diretta (per una casa editrice, altre case editrici), ma anche – e spesso soprattutto – indiretta (per una casa editrice, tutte le aziende che offrono prodotti, servizi ed esperienze che si propongono come alternative alla lettura). Consumatori e concorrenza (dunque contesto e società) sono il pane quotidiano dell’area marketing (se c’è). Ma anche quando l’area marketing esiste e funziona e lavora, dell’approccio storico-sociologico si fa uso colpevolmente limitato: perché si fa poca analisi sul consumatore, preoccupandosi molto dei bisogni espressi e assai poco di quelli latenti (mentre è lì che ci sarebbero i presupposti per azzardare qualcosa di nuovo); e sottostimando l’importanza della concorrenza indiretta (di solito, si fa una mappa con cinque, sei competitor dello stesso settore e morta lì).

L’approccio formalista-strutturalista, fondato sul Messaggio, “si concentra sulla struttura dell’opera in quanto tale, e cioè su come essa è fatta e funziona”. Ed eccoci dunque alla centralità del testo: che in letteratura è certo cosa buona e giusta. Dunque, corrispondendo la marca al testo nel mio forzatissimo parallelismo, la sua centralità dovrebbe essere cosa buona e giusta anche nella strategia aziendale. E in effetti lo è: purché questo si concreti in un posizionamento “chiaro, unico e distintivo” (e un posizionamento, per dirsi tale, deve tener conto anche della storia, del consumatore, del contesto competitivo eccetera) e non si riduca, come spesso accade, a una centralità esclusiva del prodotto. A peccare, qui, è spesso l’area design: che, in una rischiosa deriva riduzionista, fa coincidere qualunque discorso possibile sulla marca con ciò che viene tangibilmente mostrato attraverso quel che l’azienda produce.

Nell’introduzione della “Scrittura e il mondo” si arriva a una conclusione: su che cos’è la letteratura. “Sono letterari quei discorsi intensamente figurali che perciò devono essere letti come polivalenti in quanto convivono in essi molteplici significazioni (molteplici, ma non infinite e interminabili)”. Dove per figuralità si intende un rimandare ad altro, un distanziarsi dalla pura e semplice referenzialità del testo (il discorso trasparente che dice solo ciò che ha bisogno di dire).

Vediamo se funziona anche nel caso nostro:

Si fa marketing quando si allestisce un discorso intensamente figurale a proposito della marca (dove per figuralità si intende un distanziarsi dalla pura e semplice oggettività del prodotto, dal suo adempiere a una funzione pratica) che perciò deve essere letto come polivalente in quanto convivono in esso molteplici significazioni (ma non infinite e interminabili: giacché il compito di un buon marketing è quello di limitare e, per quanto possibile, escludere le significazioni non pertinenti o indesiderate).

Sì, è un poco tirato per i capelli. Ma è un modo per approcciare la questione in termini diversi dal solito: i manuali di marketing, quelli veri, sono di una prevedibilità e di una ripetitività spesso mortificante.

Questa della “Scrittura e il mondo” è certamente una recensione impropria, ma non credo sia irrispettosa verso il testo o i suoi autori: che un’opera si comporti come una chiave capace di aprire non una, non due, ma molte porte (il mondo, mi verrebbe da dire) io la ritengo una cosa assai bella. E poi, basta aggiungere un accento al titolo (La scrittura è il mondo): e tutto trova magicamente un senso, no?

 

Andre Vicente Goncalves

“Doors of the world” di André Vicente Goncalves.

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