Emanuela Canepa, L’animale femmina
Il portafoglio è nel cestino e Rosita capisce. Individua la donna, afferra il portafoglio e la segue. Signora! Signora! grida. Cerca la sagoma tarchiata, la giacca verde fluo, le mani sprofondate nelle tasche e grida. Signora! Signora! grida. Era tenuta? Per nulla. Rosita poteva ignorare il portafoglio, ignorare la sagoma tarchiata, la giacca verde fluo, voltare la testa come spesso si fa, perché è comodo farlo. Perché con la ressa della Vigilia, sarebbe stata più che giustificabile, giustificata. Rosita poteva sottrarsi. Ma Rosita non lo fa. Signora! Signora! grida. E però la signora le sfugge. Si perde nella calca, scompare. Rosita si ferma, si guarda intorno. Guarda il portafoglio, se lo rigira fra le mani: modesto, un po’ consumato, lo apre. Niente soldi, i soldi sono stati rubati, ci sono le tessere del supermercato, le bollette pagate, la data è di oggi, i documenti. C’è un nome: Larisa Jarmolenko. C’è una nazionalità: ucraina. Rosita rigira fra le mani questo portafoglio di donna nemmeno italiana – “Slava, quindi. Ma era ovvio, bastava guardarla” – e anche qui sarebbe un attimo: sottrarsi. Ributtare il portafoglio nel cestino, dove gli spazzini certo lo troveranno, i portafogli rubati finiscono sempre, in qualche modo, per arrivare, spogli dei soldi, in un qualche ufficio della polizia. Ma Rosita non lo fa. Tiene il portafoglio. Lo tiene con sé durante l’intera giornata di lavoro, batte gli scontrini alla cassa, studia Fisiologia nella pausa pranzo. Ancora, ci sarebbe la possibilità di voltare la testa, di sbarazzarsi di quell’ingombro, di non accettare distrazioni, deviazioni. E invece Rosita decide di riconsegnarlo: poche ore dopo, è lì che suona il citofono di un villino liberty – due piani, bifora al centro, un’altana che si stacca nel buio – e.
“L’animale femmina”, esordio perfetto di Emanuela Canepa – come ogni opera dove la selezione è parte del tutto e dove al contempo la selezione è il tutto – si ritrova compreso e comprensibile, in qualche misura svolto, già nei suoi primi capitoli. In quella gabbia (e si capirà, poi, il perché io faccia uso proprio della parola gabbia) della madre che stira ossessivamente le lenzuola. In quel portafoglio raccolto con intenzione. Nella decisione di non scansare: tre volte, a fronte di tre occasioni per tirarsi indietro. Tre ne ebbe Simon Pietro, che per tre volte rinnegò il Cristo: Non so che cosa dici. Non conosco quell’uomo. Non lo conosco! Riverbera, negli atti di Rosita – prendere il portafoglio, guardarsi intorno, cercare, conservare, restituire – quella frase dell’incipit, riportata anche in bandella: «Per molto tempo non ho avuto il coraggio di farlo. Poi mi sono detta che dovevo tentare e alla fine ci sono riuscita. Perché sapevo che là dentro sarei morta. E invece io volevo vivere.»
Io volevo vivere.
Dal portafoglio raccolto, all’incontro con Ludovico Lepore: incontro che non è dunque frutto del caso, ma figlio dell’intenzione. Rosita entra in questa casa “buia e silenziosa”. Arredata con mobili di “antiquariato piuttosto costoso”, che tradiscono la ricchezza del proprietario, la bellezza, ma anche un certo senso di non vita. Lepore è “appena stempiato”, con “i capelli bianchi” e “un’aria leggermente arcigna”. Un vecchio di cui già s’intuisce la misoginia, costretto in una casa bloccata: dove non entra vita, non entra luce, non entrano persone, non entra presente. Tutto questo proprio alla vigilia di Natale. Il collegamento con lo Scrooge di Dickens è immediato, ed è la stessa autrice a scoprirne subito la carta, a far sparare subito la pistola, attraverso le parole dello stesso Lepore: «Finora è tutto molto dickensiano, vero? Rosita Mulè trova un portafoglio la notte di Natale, e lo riporta a un vecchio leggermente sinistro che le offre un lavoro e un’opportunità di riscatto. Ho sempre avuto molta simpatia per Scrooge. Piace anche a lei?» E già qui si capisce: che se attraverso il romanzo accadrà una qualche trasformazione, se qualcuno riceverà il “dono della vita” dalla facoltà trasformatrice e redentrice, questo dono interesserà certo Rosita Mulè, che di sé, in prima persona, narra, ma altrettanto certamente anche Ludivico Lepore. Perché se di “Canto di Natale” ci è rimasta la figura – carismatica in negativo, e però carismatica – di Scrooge, non va dimenticato che il racconto dickensiano è la storia di una redenzione: di un uomo perduto agli uomini che si ritrova, alla fine: come uomo, assieme agli uomini. Questo accade grazie a tre – anzi, quattro – incontri: quello con il fantasma del socio in affari, morto: che è l’annunciatore. E quello con i tre Natali: del passato, del presente e del futuro.
Dunque “L’animale femmina” si apre con un incontro, e con un esplicito rimando a una narrazione dove gli incontri hanno funzione trasformatrice e salvifica. All’incontro come tema fondativo della narrativa occidentale è dedicato un interessante saggio di Romano Lupperini: “L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale”. Nell’introduzione, Lupperini rileva una cesura: tra l’incontro nel romanzo ottocentesco, che è sempre scaturigine di una qualche forma di cambiamento, e l’incontro nel romanzo novecentesco: che è più spesso un incontro insterilito perché fallito o non assecondato o semplicemente – e mai più di questo – vagheggiato.
«Prendiamo il caso della Éducation sentimentale, vero e proprio punto di passaggio obbligato per la narrativa dei due secoli. Di capitale importanza per la storia del romanzo europeo è l’asse che unisce l’Éducation sentimentale e l’Ulysses: i due romanzi pullulano di incontri, ma nessuno di essi ha un valore decisivo, la vita essendo ridotta a scialo di piccoli fatti insignificanti.»
E ancora:
«La pulsione del desiderio non è più indirizzata in avanti, ma ripiegata all’indietro: diventa, scrive Brooks, “concupiscenza retrospettiva”. […] La meta è dietro le spalle, non più spinta all’azione ma oggetto di nostalgia. Di conseguenza anche l’incontro diventa inessenziale, un momento in cui si articola una vita sociale piatta e insignificante, fitta magari di riti mondani, ma vuota di esperienze reali. Esso si presenta sempre più spesso come incontro mancato (Flaubert, Proust, Tozzi), come incontro sostituito con un altro di valore inferiore (Flaubert) se non infimo (Tozzi), come incontro ricordato (Maupassant, Proust), come incontro irrealizzabile, vuoto o impossibile (Pirandello, Kafka o, più avanti, ma sviluppando coerentemente tale linea, il Beckett di En attendant Godot).
Anche nell’“Animale femmina” c’è un incontro che di fatto non si realizza: ed è quello fra Rosita e Maurizio: l’uomo sposato con il quale la ragazza ha una relazione. Relazione che però, nei fatti, non si dà: dato che Rosita si è allenata a non pretendere niente, a non sperare niente, a non aspettarsi niente. A non desiderare niente. «Sono giorni che non si fa vivo, e credere che arriverà un segnale proprio ora è una cosa senza senso. Non è nelle sue abitudini.»
Anche Ludovico, ferito da Guido, si allena a non desiderare più: «Gli sembra di essere morto, si tiene insieme solo grazie all’orgoglio punitivo, quello che punta il dito contro l’altro per dimostrare che non ha più bisogno di lui.»
Il desiderio di Ludovico – così compresso, frustrato, annichilito – riemerge sotto la forma distorta dell’ossessione nevrotica: la smania per l’efebo, l’oggetto: «Decide che in un modo o nell’altro l’efebo deve tornare da lui, e questa diventa l’unica ossessione con cui riesce a tenere a distanza il pensiero della morte.»
C’è un altro autore, concittadino di Emanuela Canepa, che ritrae il ventre molle della Padova benestante: Romolo Bugaro. C’è questa scena, in “Effetto domino”, dove l’imprenditore edile Franco Rampazzo è seduto difronte a una bella, giovane donna. Lei deve firmare la cessione di un terreno. Lui deve acquistare. Rampazzo la scruta: dal modo di fare di lei, suppone che non abbia marito, né compagno. Gli viene il desiderio di chiedere, di fare domande. «Perché è sola, signorina? Un amore finito, tradito? Oppure nessuno la convince? Cosa cerca nelle persone?» Ma Franco Rampazzo non chiede. Reprime il desiderio e non chiede. E non lo fa per rispetto della sua propria moglie, in onore a un principio di fedeltà, ma come risultate di un’abulia di fondo: il non desiderare, o il desiderare male (il “grande salto”, nella professione), che poi sono la stessa cosa, perché l’uno è anestesia per l’altro.
«Però quella giovane donna era lì, a pochi metri di distanza, seduta sulla poltroncina basculante con le gambe accavallate. Ascoltava Colombo con la sua aria attenta, concentrata, e irradiava una specie di luce molto tenue.
Come al solito, lui non avrebbe mosso un dito. L’ennesimo disincontro della sua vita.»
Non più incontri, ma disincontri. Incontri che non portano a nulla, dunque che – nel loro confermare, per continuità e contiguità – un nulla che esisteva e che continua a esistere, si contraddistinguono per il loro non-essere, o essere contro. “Effetto domino”, a ben vedere, è l’illusione di correre su una ruota di criceto. Soggetti a un meccanismo, infernale fin che si vuole, ma: in qualche modo controllato da noi. Che corriamo, che facciamo girare la ruota. Noi. Quando voglio smetto. Quando voglio scendo, poso le zampe sull’erba e: finalmente vivo. Salvo rendersi poi conto che no: non c’è niente che controlliamo, nessun evento. In quanto criceti, in quanto animali, non controlliamo nulla.
«Le femmine sono animali interessanti» dice Ludovico Lepore, con una frase che al romanzo di Emanuela Canepa dà il titolo. Le femmine come esseri da incasellare secondo una divertita, sprezzante tassonomia: Vecchie in disarmo. Fiorellini di campo. Caratteri forti che si sfanno, si sconquassano alla prima difficoltà. E lui – l’uomo navigato e disincantato, o il “pomposo coglione” – che le guarda con la curiosità dell’entomologo, farfalle e coleotteri agonizzanti dentro un vaso quattrostagioni, storditi dalla trielina, prima di raggiungere la teca che li renderà eterni, dunque eternamente osservabili. C’è solo misoginia, in questa frase di Lepore?
«Mi affascina il modo in cui la maggior parte di loro scambia per carattere un insieme di automatismi che si attivano in reazione a uno stimolo. Credono si tratti di personalità, invece è un riflesso condizionato: dato un certo input, e tenuto conto delle variabili, il comportamento risulta sempre prevedibile.»
Lepore sta parlando delle donne? Della Callegari, della Jarmolenko, di Rosita Mulè? O sta parlando di se stesso? Del suo, di fatto, non riuscire a vivere come essere desiderante?
L’animale femmina è…
il criceto sulla ruota?
In un commento ad “Autoritratto nello studio” di Giorgio Agamben, il filosofo Felice Cimatti parla della vita degli uomini e della vita dei gatti. Che non sembra poi essere, dice Cimatti, di primo acchito, così diversa.
«Di che cosa è fatta, alla fine, una vita? Infanzia, giovinezza, famiglia, lavoro, amori, gioie e tristezze, malattie. È vero, i “fatti” di una vita sono questi, più o meno. Ma questi sono, appunto, soltanto fatti. La vita di un essere umano passa attraverso quei fatti, ma non si identifica con essi. Facciamo l’esempio della vita di un gatto. Anche per lui ci sarà stata una giovinezza, degli amori, giornate buone e giornate cattive, fame ed eccitazione, corse e topi, fusa e cani. Alcuni di questi fatti sono paragonabili a quelli di un essere umano, altri no. Ma siccome non sono che fatti, e i fatti non sono nient’altro che fatti, se davvero una vita non fosse altro che la somma dei fatti di cui si è intessuta, che differenza ci sarebbe fra la vita di un gatto e quella di un essere umano? Si potrebbe subito rispondere che non c’è nessuna differenza, che la vita di un gatto vale quella di un uomo.»
Molti uomini, dice Cimatti, sembrano vivere esistenze molto simili a quelle dei gatti. Molti uomini, dice Cimatti, «vivono la vita che vivono senza farsi troppe domande, su che tipo di vita sia, la vita che gli è capitata.» Vivono come un gatto, come una pianta di basilico, vite del tutto naturali: «non nel senso sciocco che sono vicine alla “natura”, bensì nel senso che sono vite che vivono naturalmente.»
Ma ci sono anche quelli che – pur vivendo la vita che gli è capitata (come càpita la vita al gatto o al sasso o a Rosita Mulè, dalla madre ossessiva, o a Ludovico Lepore, dall’amore faticoso da accogliere, poi tradito) – cominciano a vedersi vivere. A concepire la vita come problema. Non un problema che debba essere risolto – molti problemi di vita non si possono risolvere – ma come una vita-problema che richiede, da parte di chi la sta vivendo, una presa di posizione: e accettare l’incontro – Rosita che accetta di incontrare Ludovico e poi Guido, Ludovico e Guido che accettano di re-incontrarsi – è sempre una presa di posizione. Ma accettarlo, questo incontro, in senso anti-novecentesco: non come incontro sterile, inane, fallito, vagheggiato (forse per finta), rimandato, temuto, non accaduto perché non accadibile, ma come incontro che diventa dono di vita. Come incontro con i tre Natali – passato, presente, futuro. Come incontro, dice Cimatti, che diventa veramente “nostro”, quando gli incontri, di per sé, non sono nostri per nulla: «Gli incontri, come sappiamo da Lucrezio, sono casuali. Il punto è proprio questo. Gli incontri sono casuali, quindi le nostre vite non sono affatto “nostre”, perché non sono altro che la serie degli effetti (questi invece del tutto necessari) di questi incontri.»
E ancora:
«Se noi siamo i “nostri” incontri (che in realtà non sono nostri per nulla), si tratta di diventare quegli stessi incontri. Coincidere con sé stessi.»
Coincidere con sé stessi significa coincidere con il nostro essere uomini. Dunque con il nostro non essere animali. Spesso ci compiacciamo, nel dire: “siamo animali”. Ci compiacciamo nel riconoscere a noi stessi, quasi ostentare, il fatto di avere comportamenti impulsivi, figli di natura, istintuali e non desideranti. Irresponsabili, alla fine, perché desiderare impone sempre una responsabilità.
Per molto tempo non ho avuto il coraggio di farlo.
Poi mi sono detta che dovevo tentare,
e alla fine ci sono riuscita.
Perché sapevo che là dentro sarei morta.
E io invece volevo vivere.
Si muore dentro il vaso quattro stagioni, si muore con le braccia, le gambe, il collo, infilzati da spilli entomologici. Si muore in quanto uomini, riducendosi al solo esseri animali, sulla ruota, nella gabbia. “L’animale femmina”, di Emanuela Canepa, più che un romanzo femminista, a me sembra un romanzo profondamente, perfettamente umanista. Dove l’uomo – maschio o femmina che sia – ritorna al centro nel suo vedersi vivere, e nel suo poter vivere come uomo. Dove l’essere umano non si crogiola più nella sua facoltà di fallire: ma si assume l’onere, finalmente, e per sempre, della sua facoltà di riuscire.