Valentina Durante – Copy & Story | L’antagonista: o del fare arte
Il dubbio è che “L’antagonista” non sia neppure un romanzo specificamente sul narrare, bensì un romanzo più genericamente sul fare: l’opera.
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Edoardo Zambelli, L’antagonista

Il primo indizio è stata la copertina. Non la sagoma dell’uomo, in primo piano sulla sinistra: seduto su quella che sembra essere una veranda affacciata sulla spiaggia. Non la sagoma della ragazza, vestita con maglietta e gonna (oppure un abito), molto più piccola, che cammina (sembra camminare) sulla rena. Sono state le righe: quella successione di strisce parallele, arancioni, che separano la sagoma dell’uomo dall’occhio di chi lo guarda. Quelle strisce, forse di una parete a listelli, un divisorio fra una sezione della veranda e l’altra, hanno evocato in me l’immagine di una fotografia: Raggi di sole – Paula – Berlino, scattata da Alfred Stieglitz nel 1889. Anche in Raggi di sole ci sono delle strisce: tracciate dal sole, che entra nella stanza attraverso il negativo delle veneziane (si suppone). Ci sono strisce fra il nostro sguardo e la finestra, fra il nostro sguardo e la parete, fra il nostro sguardo e Paula stessa.

Il ruolo di quest’opera nella storia della fotografia è importante: ci troviamo in un periodo, la fine dell’Ottocento, in cui i fotografi cosiddetti “d’arte” scommettevano tutto sull’imitazione delle caratteristiche della pittura. Una bella foto – dove per “bella” s’intende di qualità, con ambizioni estetiche, artistica appunto – doveva essere quanto più possibile lontana dalla fotografia e quanto più possibile vicina alla pittura. Doveva sfocare appannare mischiare le forme e le gradazioni di grigio, confondere i contorni, manipolare il soggetto per allontanarlo dal reale. Rodin e il pensatore di Edward Steichen è un esempio perfetto di questa tendenza definita “pittorialista”. L’opera di Stiglitz è tutto l’opposto. In Raggi di sole tutto è perfettamente a fuoco: le strisce di luce e quel che ci sta dietro: la finestra, il tavolino rotondo, la parete, Paula che scrive. L’opera di Stiglitz non solo non si nasconde, in quanto fotografia, ma si ostenta: rappresentando la fotomeccanica in sé, “per cui la luce entra nella macchina fotografica attraverso un otturatore per lasciare una traccia permanente sull’emulsione sensibile del negativo” (Forster, Krauss, Bois, Buchlon). Ma non è solo questo: sopra il tavolino rotondo, difronte a Paula che scrive, c’è una fotografia ben incorniciata: è Paula. E alla parete, sopra la carta da parati, accanto a un gabbia da uccelli, ci sono altre fotografie: ed è sempre Paula. La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (direbbe Walter Benjamin) è contenuta nell’immagine di Paula, dunque in Paula stessa.

“Paula è un gioco di scatole cinesi, una dimostrazione della riproduzione come serie potenzialmente infinita del medesimo.”

E:

Raggi di sole è la pura risposta alla domanda: Che cos’è una fotografia?”

Il secondo indizio è stato il titolo: “L’antagonista”. Quanti altri modi c’erano di dirlo, quanti sinonimi? Il nemico l’avversario il rivale il concorrente il competitore l’oppositore. Forse tutti questi sinonimi erano più scontati, più cliché, o foneticamente peggiori. Ma il punto resta: l’antagonista è, fra le altre cose, una funzione del testo narrativo. Designa il personaggio o il gruppo o il sistema sociale o l’elemento teriomorfo, fitomorfo, naturale, persino la forza interiore, che si contrappone al protagonista ostacolandolo. È l’antieroe.

Il terzo indizio è stata una coincidenza. Avevo letto da poco un breve saggio di Victor I. Stoichita: “Effetto Sherlock – Storia dello sguardo da Manet a Hitchcock”. Il capitolo 2, “Una trama visiva”, si apriva con un quadro di Gustave Caillebotte: Interno, donna alla finestra. Così lo descrive Joris-Karl Huysmans, cronista alla mostra degli Indipendenti del 1880:

«Il soggetto? Oh, buon Dio! È decisamente ordinario. Una donna, in piedi a una finestra, ci dà le spalle e, accanto a lei, un uomo seduto in poltrona e ritratto di profilo legge il giornale. Tutto qui. [..] Sullo sfondo della scena, attraverso la finestra da cui filtra la luce del giorno, l’occhio intravede la casa di fronte, con le grandi lettere dorate che l’industria fa arrampicare sulle balaustre dei balconi e sui davanzali, in questo scorcio della città.»

Ma Huysmans tralascia un dettaglio importante: ciò che la donna alla finestra sta guardando non sono, con tutta probabilità, “le grandi lettere dorate”. Perché sotto queste lettere che “l’industria fa arrampicare sulle balaustre dei balconi e sui davanzali” c’è un’altra finestra. E al di là di quest’altra finestra c’è una sagoma: forse di donna che, ritta in piedi, guarda. È uno specchio: in Interno, donna alla finestra di Caillebotte si guarda e si è guardati.

Anche la ragazza sulla spiaggia, ne “L’antagonista”, è guardata e guarda: da un uomo, ritto alla finestra. La finestra è illuminata. L’uomo, come il vis-à-vis nel dipinto di Caillebotte, è una sagoma: stagliantesi immobile dietro la finestra. Solleva la mano (così pare). Sorride.

Ma c’è una scena che ancor più si attaglia al dipinto di Caillebotte: la ragazza è ora nell’appartamento del ragazzo.

«Dalla finestra che aveva di fronte poteva vedere una donna che stava passando l’aspirapolvere nel proprio appartamento. I palazzi erano molto vicini. A un tratto le parve che i loro sguardi si incrociassero. La donna indossava un maglione verde chiaro e un grembiule bianco.»

Gli sguardi della ragazza e della donna s’incrociano, prima che la ragazza venga portata dal ragazzo e dal biondo nell’altra stanza, quindi blandita, carezzata, poi pestata.

Di Interno, donna alla finestra scrive Stoichita:

«Caillebotte appartiene agli spiriti minori del movimento impressionista. Non si tratta qui di mettere in discussione tale opinione, giusta o sbagliata che sia, ma è di gran lunga più importante comprendere l’attività pittorica di Caillebotte in rapporto alla sua vera vocazione, quella del collezionista. In effetti il centro d’interesse della sua opera mi pare strettamente legato a quest’attività: la sua pittura è quella di un collezionista di “idee impressioniste” che egli stesso commenta per mezzo di strumenti pittorici.»

E dunque: abbiamo una copertina che evoca una foto che è un documento programmatico sulla fotografia. Abbiamo un titolo che è quasi un proclama narratologico. Abbiamo un insistere di scene – il guardare dalla finestra, essendo contestualmente guardati – che è, tradizionalmente, un commento alla rappresentazione per mezzo di strumenti che rappresentano (non va dimenticato che l’immagine della finestra è una metafora della pittura stessa: “una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” la definì Leon Battista Alberti).

Al terzo indizio (ero arrivata circa a metà), ho interrotto la lettura de “L’antagonista” di Edoardo Zambelli (Laurana, 2016) per ricominciarlo daccapo. Leggendolo stavolta non più come una semplice storia, ma come una riflessione attraverso strumenti narrativi sul modo in cui si costruiscono le storie, ossia sui meccanismi dell’immaginazione e del narrare.

C’è un protagonista: anonimo, che fa lo scrittore. No: il protagonista non è scrittore per nulla: è un uomo che per professione fa una scrittura cosiddetta “di servizio”, e che definisce se stesso un “web content editor”. Quest’uomo, però, ha una storia da scrivere. No: il protagonista de “L’antagonista” non ha nessuna storia da scrivere, nessuna trama tutta nella testa: è “fermo a poco più di un’idea”. Meglio: un’immagine: “Una ragazza che cammina a piedi nudi sulla sabbia in una giornata di pioggia, alla fine dell’estate.” La storia non è tutta da scrivere, la storia è ancora tutta da immaginare: è una storia possibile, un richiamo, un sentore, l’inizio di un viaggio. E il viaggio dell’anonimo protagonista narratore non accadrà attraverso la scrittura – fino alla fine, il computer non verrà acceso, nessuna parola verrà digitata – ma attraverso l’immaginazione: che è, poi, il vero fulcro e la vera sfida del narrare.

Ma si tratta di solo narrare?

Zambelli traccia con il suo “L’antagonista”, passo per passo, un vero compendio sulle arti. Le più significative ci sono tutte: c’è il cinema, di cui il protagonista scrive recensioni non di chissà quale valore, ma che gli danno da vivere. C’è la musica: che è la passione privata, e che campisce lo spazio e le scene dall’inizio alla fine. C’è la scrittura com’è ovvio. Ci sono la fotografia e la pittura (l’angelico e feroce Marco è pittore e fotografo, e pittore attraverso la fotografia). E infine c’è il teatro: recitato da Erika e dal suo pigmalione Eugenio Alberti: «Ogni suo movimento aveva una calcata teatralità che lo rendeva artificioso. Immaginai il giovane Alberti che provava tutti quei movimenti davanti allo specchio. Ogni giorno. Cercando di diventare qualcosa che non era. E che non sarebbe stato mai.» Il giovane Alberti si immagina.

E dunque il dubbio è che “L’antagonista” non sia neppure un romanzo specificamente sul narrare, bensì un romanzo più genericamente sul fare: l’opera. Questo fare presuppone una invenzione. E l’invenzione (intensivo di “invenire”, ossia trovare) presuppone un’osservazione, seguita da una selezione. “Inventare è trovare: trovare qualcosa presuppone la sua esistenza da qualche parte, implicita o esplicita, dispersa in una massa” (così Füssli). Cosa sta cercando il protagonista del romanzo di Zambelli? Una spiegazione al suicidio di Erika, del quale si sente, per via di una mail ignorata, per via di una risposta non data, in qualche modo responsabile. Lo scopo del romanzo, il punto di fuga della narrazione, il precipitare verso, sembra essere tutto incentrato nella soluzione di questo mistero: incominciato per coincidenza (una coincidenza si capirà poi pilotata) grazie a un articolo di giornale.

Inizia un viaggio: che dalla località di mare – il ritiro che doveva permettere la scrittura – conduce il protagonista al Nord, a Gonzaga. Noi lo seguiamo, e però spostandoci di una trentina di chilometri, nel capoluogo: a Mantova, e più precisamente in un torrione del Castello di San Giorgio. Qui, c’è una delle più famose opere del Mantegna: la Camera degli Sposi. Nella Camera degli Sposi Mantegna rappresenta la famiglia Gonzaga in una scena privata (il marchese circondato dalla famiglia e dai cortigiani) e in una scena pubblica (l’incontro tra Ludovico II e il figlio cardinale, sulla strada per Milano). Nel descrivere il ciclo di affreschi si sottolineano di solito gli effetti illusionistici: che sembrano confondere, truccare, dilatare e in definitiva annullare lo spazio in quanto spazio architettonicamente definito. E si cita il celeberrimo oculo: che si spalanca al cielo con una balaustra dalla quale si affacciano figure: di donne, di un moro, di un pavone e di putti. Putti che sbucano con la testa, con le manine, che giocano in bilico sul cornicione, che espongono i culi grassocci, che fanno la pipì, che tengono in mano una mela.

«Passavo davanti a porte chiuse, che probabilmente non erano mai state aperte. Piano dopo piano, l’ambiente sembrava ripetersi come per l’effetto di un gioco di prestigio. Sembrava di muoversi all’interno dei motivi geometrici di un grande caleidoscopio» si legge ne “L’antagonista”.

Ma non è tanto l’illusione, lo spazio che si cancella e si riconfigura a interessarci, qui. È il ritratto. Mantegna, all’interno della Camera degli Sposi, rappresenta se stesso. E non lo fa – come altri coevi, come altri artisti dopo di lui (pensiamo a Las Meninas di Velázquez) – all’interno della scena. Non si inserisce, Mantegna, fra i dignitari di corte, i famigli, i cavalli e i cani, la nana che, sola nel gruppo, ci fissa. L’autoritratto del Mantegna è un facciotto confuso nella decorazione di una delle lesene dipinte. L’artista guarda: tutto ciò che accade all’interno della Camera. E, dovendo rappresentarsi, dovendo immortalare se stesso nell’atto di colui che fa, non lo fa come Velázquez con il pennello in mano, ma solo come occhi, come entità osservante. È davvero la soluzione del mistero, lo scopo del romanzo di Zambelli? O non è piuttosto l’osservazione di se stessi mentre si risolve il mistero? Questa osservazione è la narrazione, pare a me, fin dall’inizio, da quella mosca sullo schermo del computer: «Ma l’uomo sfatto con una sigaretta fra le labbra e gli occhi arrossati dal pianto non ero io. Sentivo di non essere io. Come se in quel frangente fossi uscito da me e avessi osservato la scena comodamente seduto sul divano e poi, una volta finito tutto, fossi ritornato nel mio corpo.»

Le stesse figure che nel romanzo sono legate a un presunto desiderio del protagonista – la moglie, che si cerca di dimenticare, Erika, il giovanile amore la cui morte va indagata – non sembrano realmente esistenti o esistite: sono attrici, funzioni della rappresentazione. Erika, attrice lo è in maniera conclamata. Ma anche la moglie, a ben considerare: che nel primo incontro viene descritta con i capelli neri raccolti sulla nuca, come “la Claudia Cardinale di Otto e mezzo”. E allora non sembra poi così strano che terminato il viaggio, compiutasi l’immaginazione, esauritasi la funzione di Erika, Erika stessa cessi di esistere.

«Sul tavolo c’era ancora il giornale da cui tutto era partito. Mi avvicinai e presi a sfogliarlo. Della notizia della morte di Erika non c’era traccia. Lo sfogliai daccapo un’altra volta, controllai anche che non mancassero pagine. Niente, di Erika non si parlava.

Andai al computer. Aprii il programma di scrittura elettronica e iniziai immediatamente a scrivere.»

Non c’è più bisogno di Erika: la sua morte nella realtà scompare per lasciar comparire la sua morte all’interno della finzione.

C’è una scena, ne “L’antagonista”, che da subito mi è parsa centrale, e sulla cui centralità e persino necessità mi sono interrogata a lungo: ed è la scena dello stupro collettivo.

«Tutti ebbero rapporti con lei, uomini, donne, senza risparmiarle nulla. Schiaffi, sputi, insulti. L’odore di carne, sperma e sudore aveva invaso lo studio e mi bruciava le narici.»

Ho avuto bisogno di pensarci non tanto per la violenza in sé – la descrizione corre abbastanza rapida e senza alcun compiacimento – ma per ciò che la sua lettura ha evocato: una poesia scritta da Antonio Porta nel ’76, e facente parte della raccolta “Brevi lettere”.

mi dici che hanno pubblicato la foto della ragazza

sprangata soffocata annegata e prima violentata

coi cazzi coi manici delle scope che ora giace

ai piedi dell’auto dove è stata rinchiusa

appena abbassato sotto le ginocchia il sacco

di plastica trasparente dove è stata confezionata

dicono che allora fosse già morta nella vasca annegata

che ora giace ancora una volta denudata contro la sua volontà

se lo hai voluto dire che c’è questa foto vuoi chiedere

e (io) dico che è come ripeterla questa violenza

moltiplicata in quattrocentomila copie e in due

milioni di occhi e in più ogni volta che si prende in mano

il giornale per riguardarla…

Porta ci parla qui di due cose: della violenza, e della reiterazione della violenza attraverso la sua rappresentazione. La violenza è quella agìta sulla ragazza: “sprangata soffocata annegata e prima violentata coi cazzi coi manici delle scope”. La reiterazione della violenza è la foto: pubblicata sul giornale, moltiplicata in quattrocentomila copie, soggetta a due milioni di occhi che la guardano.

Zambelli chiude lo stupro collettivo con una frase: “Scattò una foto, un’unica foto.”

Marco, l’artista, ha immortalato la scena nella sua opera o ancora di più: ha creato la scena per poter fare l’opera. Proviamo ad andare oltre la evidente amoralità della situazione, a vederla come metafora. Ogni atto artistico, e massimamente la narrazione, è in un certo senso uno stupro: tu prendi dalla tua vita, dunque anche dalla vita di altri, dei pezzi, usi queste vite come fornitrici di mattoncini per la tua immaginazione e tutto questo avviene più o meno consapevolmente (non sempre siamo così certi della nostra memoria e dei nostri prestiti), ma quasi sempre non consensualmente. Del resto non c’è altra via di procedere giacché (ricordiamo Fussli) un’opera non può essere oggetto di creazione, bensì solo di invenzione: organizzazione nello spazio e nel tempo di cose trovate. Noi in quanto uomini non siamo creatori: anche quando generiamo un corpo – l’apice della nostra possibilità “creatrice” – lo facciamo trasformando atomi di materia già presente: il nostro patrimonio genetico (che appunto è patrimonio), il cibo che mangiamo, l’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo. In quanto uomini non possiamo far esistere dal nulla. Neppure con le immaginazioni facciamo esistere qualcosa dal nulla: anche le immaginazioni più spericolate, più irreali, che più si discostano dal vero e dalla vita nostra vissuta, da questa vita attingono atomi.

C’è questa frasetta che apre un po’ tutte, o molte, opere di finzione: “Ogni riferimento a persone, fatti eccetera è puramente casuale”. È una frasetta che serve a tutela dell’autore e a protezione e calmiere di quanti potrebbero, in qualche misura, sentirsi chiamati in causa. Eppure questa frasetta, questo esergo che accumuna un po’ tutti, o molti, romanzi e raccolte di racconti, dovrebbe essere vista per ciò che realmente è: inutile. Perché nel momento stesso in cui io prendo qualcuno o qualcosa – che questo qualcuno sia mia madre o mio figlio o io stessa, e che questo qualcosa sia la pizzeria vicino casa o una frase già scritta, già pubblicata, da un altro autore – questo qualcuno, questo qualcosa, è entrato nella mia finzione: è morto alla vita vera in questo suo nuovo stato, e vive nel mondo altro, che io invento. È uno “stupro” (conservando la metafora) perfettamente etico: perché risponde a un’estetica – la necessità di bellezza – che nell’ecosistema artistico è necessariamente morale.

E però. Il disagio, nel fare questo, nel guardare e trasformare e porgere al godimento altrui – prendete e godetene tutti –, è difficile da zittire: abbiamo realmente il diritto di fare questo, di allestire un offertorio non solo con il nostro proprio corpo ma con quello di altri? Io ho il sospetto che Zambelli, nell’immaginare “L’antagonista”, se lo sia chiesto. Quando, in un ricordo, il protagonista accompagna Erika a portare fiori sulla tomba della nonna di lei, la ragazza comincia a raccontare: non a lui – che è lì e vive e la ha accompagnata – ma alla nonna che è lì, ma non vive più. «Parlò di me, degli esami all’università, delle paure che l’afferravano di notte quando era sola. Pianse, rise. Non ricordo le parole esatte, né tutti gli argomenti di quel monologo. Ricordo solo un flusso di parole che ogni tanto lasciava spazio al silenzio. Come se Erika in quelle pause cogliesse le risposte della nonna a ciò che lei le aveva appena detto. Parole che solo lei riusciva a sentire. Mi sentivo leggermente imbarazzato. Era come se stessi spiando qualcosa che non mi apparteneva, qualcosa che non avrei mai dovuto vedere.»

Era come se stessi spiando. Era come se stessi prendendo qualcosa che non mi apparteneva. Era come se stessi guardando ciò che non avrei mai dovuto guardare. Era come se stessi facendo mio qualcosa che non era mio, come se stessi agendo una violenza. Era come (forse) se stessi narrando.

Scattò una foto, un’unica foto.

Chi? Marco. L’amante di Erika. Colui che, all’inizio, sembra “l’incarnazione di tutto ciò che di bello ci si può aspettare da una persona”. Colui che, anche dopo la manipolazione, la degenerazione, la violenza, pur continua a conservare questa bellezza, questo viso adolescente (come non pensare al Dorian Gray di Wilde?), questa in definitiva irresistibilità.

«Non riuscivo a smettere di fissarlo. C’era qualcosa di magnetico nel suo viso. In un certo modo, era come se non avessi mai visto nulla di più bello. Recava i segni del tempo e quelli della colpa. Era un viso consumato, colpevole. Ma, al contempo, aveva mantenuto un candore fanciullesco. Colpa, rimorso e innocenza coesistevano in quei lineamenti.»

È impossibile non condannarlo, è impossibile non desiderarlo.

«Ogni suo movimento appariva equivoco, ogni piccolo gesto aveva la capacità di turbarmi. Mi voltai a guardare la grande finestra. Ma il suo sguardo persisteva nel fondo della mia retina. Peggio, nel fondo della mia mente. Era come un’impronta indelebile. Non potevo sottrarmi.»

E ancora:

«Sentii un’erezione crescere potente nei miei pantaloni. Avrei voluto baciarlo, poggiare le labbra sulla sua pelle. Seguire il contorno di una ruga con la lingua, poi cercare la sua bocca con la mia.»

Chi è l’antagonista? Ma ovviamente l’artista, dunque il narratore stesso. È il nostro io che fa l’opera e per il quale proviamo, alternativamente o simultaneamente, il più grande desiderio e la più grande repulsione. Abbiamo voglia di baciarlo sulla bocca, di possederlo, di essere lui, diventare in tutto e per tutto come lui, e allo stesso tempo lo troviamo riprovevole: per il suo dire cose che non vorremmo dire, immaginare cose che non vorremmo immaginare, per il suo agire – se davvero stiamo facendo un’opera onesta – in base a un’etica che è tutta interno al testo. Dove lo “stupro”, per come lo ho metaforicamente descritto, diventa necessità.

«“Non riesco a lasciarti”, dissi.

“Vai adesso… per favore”.

Appena pronunciate queste ultime parole, mi sentii libero. Come se una maledizione fosse stata spezzata.»

L’immaginazione ha fatto il suo corso, l’opera è finita: va scritta, ma quella è la fatica minore.

«Uscii dalla stanza, richiusi la porta e uscii dall’appartamento. Scesi le scale lentamente, senza voltarmi mai, e avevo l’impressione che man mano che scendevo il mondo alle mie spalle si sgretolasse e ne rimanesse solo una grande macchia bianca.»

Cosa resta alla fine? La tela, la pellicola, il supporto. La pagina in bianco. O, come direbbe Salvador Elizondo, “la possibilità del progetto”.

Nota 1: La frase di Elizondo è pescata dal profilo Facebook di Giulio Mozzi.

Nota 2: Edoardo Zambelli è uscito da poco con un secondo romanzo, sempre edito da Laurana, e con un titolo assai pertinente (con questo mio post) e promettente: “Storia di due donne e di uno specchio”.

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