L’autofiction di Giovanni Rana (e molto altro)
O: cos’è un narratore aziendale e in cosa si differenzia dal Tone of Voice
Chiesero a Moravia in un’intervista (televisiva, forse l’ultima prima di morire): “Lei crede in Dio?”. Moravia ci pensò su e rispose: “No, io non penso di credere in Dio, perché non ho mai scritto niente di originale su questo tema. E si crede in qualcosa quando si è originali rispetto a qualcosa. Io non sono mai stato personale su questo argomento, e perciò deduco che non credo in Dio”.
Questo episodio è citato in “Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere di Giuseppe Pontiggia” e dice due cose che potrebbero anche non essere vere in assoluto (ma cosa lo è, nell’ambito della scrittura? e nell’ambito di tutto il resto?), ma che ritengo funzionali ai concetti che andrò a sviluppare.
Cosa numero uno: la scrittura è (anche) scoperta. Non scriviamo ciò che conosciamo, ma ci conosciamo attraverso ciò che scriviamo. Attenzione: qui non si parla né di arte-terapia né di scrittura automatica, bensì di originalità e personalità delle immaginazioni che produciamo.
Cosa numero due: si crede non in ciò di cui si parla bene (Moravia non ha detto: “non credo in Dio perché non ho mai scritto bene di Dio”; ha parlato di originalità e di personalità), ma in ciò di cui si parla in modo nuovo, creando qualcosa che prima non c’era. In altre parole: è la creazione a testimoniare la fiducia (dunque l’amore), non la lode.
In entrambi i casi si parla di esteriorità: l’opera è qualcosa di esterno rispetto a chi l’ha prodotta, è figlia dell’autore ma come il figlio – una volta nata – vive di vita propria. Ed è, nella sua fase di gestazione, parzialmente inconosciuta, così come è inconosciuto il figlio nel grembo. Ed è, come il figlio, incontrollata: per quanto si possa progettare, è ciò che accade in pagina a fare la pagina, dunque l’opera.
Pontiggia così commenta: “Scrivere è qualcosa di diverso da una rielaborazione meccanica o trascrizione o trasposizione di quello che si è pensato, ma è veramente un viaggio nell’ignoto. È anche questo che rende importante lo scrivere sul piano della conoscenza”.
Scrive invece Giulio Mozzi in “(non) Un corso di scrittura e narrazione”: “Qualche anno fa ho fissato questo pensiero: ′Quando scrivo, io non svelo, io non scopro me stesso. Quando scrivo, io produco me stesso. Prima che scrivessi, non c’ero; dopo che ho scritto, ci sono′. Successivamente feci un aggiustamento decisivo: ′Quando scrivo, io invento me stesso‵”.
Per quanto sembrino divergere (Pontiggia parla di conoscenza, Mozzi di costruzione), i due concetti sono molto simili: ciò che non è ancora stato costruito o inventato non può essere conosciuto o svelato o scoperto. E quello che non è ancora stato conosciuto, svelato o scoperto è – a tutti gli effetti, alla mia coscienza – non esistente, dunque non ancora creato o inventato (e però creabile e inventabile).
Mozzi prosegue così:
“Per scrivere, quindi, devo diventare un altro me stesso: e dopo averlo inventato devo diventarlo. Per questo dico che devo diventare un altro: un altro inventato da me, un altro me stesso, ma pur sempre un altro”.
Quando scrivo devo diventare un altro: un narratore.
Quando, come azienda, comunico, devo diventare un altro. Chi? Un narratore aziendale.
Immaginate questa scena: due uomini in completo da ufficio, seduti al tavolo di una meeting room standard. Vis-a-vis. Hanno, difronte a loro, un foglio con un numero stampato sopra, bello in grande. Uno dei due proclama: “È un sei”. L’altro ribatte: “È un nove”. Chi ha ragione? Ovviamente entrambi.
Questa vignetta (perché è una vignetta) spiega perfettamente ciò che accade in ogni azienda che conti almeno un socio o un dipendente, oltre al titolare. Ognuno ritiene di avere una visione molto chiara di cosa l’azienda dovrebbe raccontare e di come dovrebbe farlo: concetti, verbi, aggettivi, immagini da evocare in chi legge o guarda o ascolta. Ognuno ritiene che la sua visione sia l’unica esistente, perché l’azienda è unica. La realtà è che – per un’unica azienda – ci sono tante visioni quanti sono i soggetti coinvolti. E tutte sono legittimamente sei e legittimamente nove: per un lato o per l’altro.
Comunicare all’esterno, così, è impossibile. È come se, in un’azienda di cinquanta persone, ci fossero cinquanta autori incaricati di scrivere lo stesso romanzo. Se ognuno di loro non fa un passo indietro rispetto a se stesso, se tutti non comprendono che chi sta comunicando non è Mario Rossi, Responsabile marketing, o Paolo Bianchi, CEO, bensì l’azienda (meglio: il brand) il risultato è un romanzo che non si lascia scrivere. Un romanzo che è un collage di incipit di cinquanta romanzi diversi: e potrebbe funzionare, si trattasse di letteratura, solo che la comunicazione pubblicitaria non è letteratura. Occorre, per evitare la cacofonia o l’inazione, che tutti si mettano al servizio di un narratore unico: sarà lui a parlare. Sarà lui ad avere la voce.
E dunque: il narratore aziendale equivale al tono di voce? Nella mia idea: no.
Ora: so che il tono di voce (in gergo: tone of voice, ToV) è uno dei fondamentali di ogni brief pubblicitario. Ed è giusto che sia così, quando l’obiettivo dell’intervento di comunicazione è circoscritto (esempio: ideare la campagna stampa per il lancio del nuovo marchio di biscotti I girasoli). Ma quando si ragiona in chiave più ampia – e io questo sto facendo, qui – ridurre il contatto fra emittente della comunicazione (l’azienda) e destinatario della comunicazione (il target) al semplice tono di voce è riduttivo. Perché?
Perché l’azienda, per essere affascinante, deve suonare umana. Viva. E noi, umani vivi, ci contraddistinguiamo per la nostra capacità di modulare il tono di voce a seconda della circostanza e di chi sta parlando con noi. Il mio modo di parlare con mio figlio non è sovrapponibile – per lessico, cadenza, figure retoriche eccetera – al mio modo di parlare durante una riunione di lavoro. È fisiologico che sia così, anche per le aziende: ogni target di comunicazione ha esigenze diverse, così come sono diverse le esigenze di ogni canale. La headline di una campagna stampa non necessariamente deve avere lo stesso ToV del company profile destinato agli investitori, e se tentate di far passare una voce di Wikipedia utilizzando lo stesso ToV di un post sui social state certi che ve la bloccheranno.
Dunque cos’è che rimane stabile? A cos’è che possiamo ancorare la nostra comunicazione per evitare che suoni distonica? Al narratore aziendale: che – così come un essere umano vivo, vero e credibile (aggiungo: e affidabile) – dovrebbe essere sempre coerente con la propria visione del mondo (la vision aziendale), le azioni concrete che mette in atto per realizzarla (la mission aziendale), il posto che ritiene di occupare nel mondo (il posizionamento) e i valori che informano il suo agire (i valori del brand).
Riassumiamo fin qui:
- A comunicare l’azienda è una “creatura” esterna (un’immaginazione): il narratore aziendale.
- La maschera del narratore deve essere utilizzata in azienda da tutti, indistintamente, ogni qualvolta si parla del brand. La comunicazione di marca non è mai una comunicazione a titolo personale. Ci può essere, è vero, una forte sovrapposizione tra imprenditore e marca: come è il caso di Giovanni Rana. Ma anche qui, vi è uno sdoppiamento: c’è il Giovanni Rana reale (l’imprenditore che ha creato l’azienda) e il Giovanni Rana finzionale (l’imprenditore che racconta di aver creato l’azienda). Giovanni Rana fa, a ben vedere, dell’autofiction, e con risultati eccellenti, data l’esportabilità del prodotto-messaggio e la suscettibilità al citazionismo. Però attenzione: non tutti gli imprenditori sono Giovanni Rana e non tutte le aziende sono la Giovanni Rana.
- Il narratore aziendale mantiene coerenza nella vision, nella mission, nel posizionamento e nei valori.
- Il tono di voce del narratore aziendale può cambiare a seconda dei destinatari e dei canali.
Ragioniamo ancora un poco su quest’ultimo punto: come dev’essere un tono di voce che funziona? C’è un autore che io amo molto e che ha fatto del gran bene (involontariamente) al copywriting e alla comunicazione professionale in genere: ed è Italo Calvino. E però ha fatto, in certa sua mala o eccessiva interpretazione, anche dei danni. I testi incriminati sono due: le famosissime “Lezioni americane” – e in particolare il capitolo sulla leggerezza – e l’altrettanto famoso articolo sull’antilingua. L’abuso di questi due testi ha prodotto due credenze giuste, ma non completamente giuste:
Uno: il testo chiaro e semplice funziona sempre.
Due: il testo gradevole, simpatico, non scritto in burocratese/aziendalese/medicalese eccetera funziona sempre.
In realtà (credenza uno) ci sono consumatori che, per sentirsi attratti e gratificati, necessitano di una comunicazione elitaria e tortuosa. Perché vogliono considerarsi degli specialisti – interni al settore – e sviluppano un pregiudizio alla rovescia sulla semplicità e la facilità del messaggio (e spesso anche dell’uso del prodotto). Sono, è vero, una piccola parte, ma vanno tenuti in considerazione, specie in certe categorie merceologiche (hi-tech, beni di lusso, eccetera).
Quanto alla credenza due, la legittima ostilità all’aziendalese ha generato la nascita di un altrettanto artefatto “simpatichese”: un linguaggio pubblicitario facile, friendly, beverino, un poco scanzonato, che andrà bene per tanti marchi e prodotti ma ne mortifica (pochi? tanti?) altri.
Negli anni Ottanta, mio padre era insegnante di scuola media. Fra i suoi alunni si contavano parecchi ragazzini provenienti da famiglie contadine: il padre, la madre, avevano il campo, la stalla, l’orto, il fienile. I figli in casa si esprimevano in dialetto; sugli scaffali della libreria c’erano souvenir e foto di famiglia incorniciate in argento, invece che libri, e la comprensione dell’italiano era quella che era. Non per questo la lingua era povera, tutt’altro: la ricchezza del dialetto, nella nominazione delle cose vive e terragne – la pianta, il movimento dell’acqua, la zolla, l’insetto e il suo verso – è incomparabile se confrontato con le astrazioni e certi appiattimenti dell’italiano. A ogni buon conto: un giorno mio padre assegnò, al termine della lezione di storia, un componimento su Cristoforo Colombo. I ragazzi avevano studiato sul sussidiario: testi redatti con un linguaggio da sussidiario. Uno di loro scrisse: “Cristoforo Colombo, tornato dalle Americhe, si fece delle grandi mangiate d’erba”. Mio padre trasalì: cosa voleva dire? e chiese lumi al ragazzino. Lui rispose: “Professor, sta scritto nel libro”. E mostrò il punto. Dove stava effettivamente scritto qualcosa come: “Al ritorno dal primo viaggio in America, Cristoforo Colombo venne ricevuto dai magnati di Spagna”. Il ragazzino aveva inteso quel “magnati” – parola oscurissima – come “mangiate” (in dialetto veneto mangiare si dice “magnar”). E per “Spagna” l’erba spagna (o erba medica o alfa alfa): pianta foraggera per eccellenza e che può essere consumata anche dall’uomo, come germoglio. Quel ragazzino aveva un contatto sporadico e libresco con la Spagna-paese: dove non era, con tutta probabilità, mai stato. Ma aveva un contatto quotidiano e concreto con l’erba spagna: che, combinatasi con quel “magnate” dialettale, aveva prodotto un concetto che aveva la sua plausibilità: chi poteva conoscere e mettere in discussione i gusti alimentari di Cristoforo Colombo?
E dunque: il tono di voce corretto è quello che i destinatari riconoscono come proprio. Che non mette a distanza, ponendosi troppo in alto ma neppure troppo in basso. È il tono di voce che accoglie e permette: perché è funzionale non al voler dire. Ma, come titola un bel libro di Annamaria Testa, al farsi capire.