Ma i tuoi testi lo passano il test?
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
I pastori dannunziani lasciano gli stazzi e vanno verso il mare. Tu, invece, il mare (o la montagna o la campagna o quel che è) lo hai appena salutato e, più che migrare, stai cercando di ingranare nel migliore dei modi. Magari ti dedichi a qualche pulizia in ufficio. Cambi la disposizione dei mobili. Metti in ordine la scrivania (ma guarda: sotto la tastiera ci sono i biglietti natalizi di due anni fa!). Svuoti il cestino del PC (10 giga? sì, 10 giga). Rispondi alle mail arretrate. E allora, visto che ci sei, perché non dare anche una controllata ai tuoi testi? Sì, proprio quei mucchietti di parole che stanno scritte nel tuo sito aziendale o nel catalogo prodotti o nel company profile.
Vuoi provare? Ecco una lista in 10 punti che dovrebbe renderti le cose più facili (se poi vuoi leggere dell’altro c’è sempre l’ottimo blog di Luisa Carrada):
1. Nei tuoi testi ci sono titoli e sottotitoli? Se sì, è un buon segno. Perché in un sito internet ciò che attira l’attenzione del navigatore non sono le immagini e neppure i video, ma il paratesto. E la stessa cosa succede con i materiali da stampa (pensa a come leggiamo di solito i quotidiani: diamo una scorsa ai titoli, magari ai sottotitoli, e poi riprendiamo daccapo soffermandoci su quello che ci interessa). Però attenzione: il paratesto deve essere costruito con criterio, con frasi efficaci e significative. Non a caso, in una redazione, quella del titolista è una delle mansioni più delicate.
2. Nei tuoi testi ci sono grassetti? Anche questo è un buon segno. I grassetti rendono il testo visivamente più dinamico e ci aiutano con la SEO. I grassetti, però, non vanno seminati a caso. Sono degli accenti. Enfatizzano. Non sono un accorgimento puramente estetico. E se ti piacciono i grassetti colorati (o se piacciono al tuo grafico), cerca di non farti prendere la mano: un colore diverso rispetto al testo-base è più che sufficiente.
3. I tuoi testi respirano? Ci sono degli spazi, delle pause, delle suddivisioni in paragrafi, oppure si presentano come spaventevoli muri di parole che, al pari delle tre fiere dantesche, spingono il lettore a tenere altro viaggio? Attenzione però: come nel caso dei grassetti, i paragrafi non vanno strutturati alla carlona: ognuno deve essere incentrato attorno a un concetto-chiave, a un’idea dominante. Anche qui, non stiamo facendo del semplice make-up al testo.
3. Nei tuoi testi ci sono elenchi puntati o numerati? Non è obbligatorio, intendiamoci, ma tieni presente che al lettore gli elenchi, le liste, le 10 cose che… piacciono molto (non a caso anche questo post è un elenco). Perché? Ce lo spiega il New Yorker in questo articolo che parla delle liste che si fanno a Natale (ma sono osservazioni sensate che vanno bene per tutto il resto dell’anno).
4. Quante volte lo hai sentito dire (o lo hai detto tu stesso): la gente non ha il tempo né la voglia di leggere. I testi devono essere brevi, stringati, fulminei. Non è che sia proprio così. Il problema non sono i testi lunghi in quanto tali, ma i testi lunghi che potrebbero essere brevi. “È stupido scrivere cento pagine dove ne basterebbe una” diceva Marinetti nel Manifesto del Teatro Sintetico Futurista. Più che di brevità, è meglio parlare di concisione: un testo breve può essere prolisso (perché contiene comunque parole superflue), così come un testo lungo può essere conciso (perché dice tutto quello che c’è da dire, né più né meno).
5. Qualità, classe, stile, sicurezza, funzionalità, esperienza, tradizione, innovazione, sintesi di tradizione e modernità, eccellenza, creatività, saper fare, tecnologia… se i tuoi testi traboccano di parole come queste (e ce ne sarebbero molte altre: un buon punto di partenza è l’elenco che Emanuele Pirella stilò nel suo Copywriter: mestiere d’arte), dovrebbe accendersi un semaforo giallo (se non addirittura rosso). Perché? Perché sono parole trite e ritrite, usate così tanto, da così tante aziende e spesso così a sproposito che ormai sono diventate parole vuote, stampelle a cui ci aggrappiamo perché non ci viene in mente altro. La prova del nove? Prova a sostituire il nome della tua azienda con quella di un concorrente: il testo funziona ancora? Significa che è troppo generico e asettico e non sarebbe una cattiva idea riprenderlo in mano.
6. Sinergie, approcci, dinamiche, sistemi proattivi, azioni strategiche, valore aggiunto, differire, interloquire, istanza, nominativo, pervenire, posizionare, reperire, transitare, ubicazione… i tuoi testi assomigliano a una circolare ministeriale? a un referto medico? a un business plan? In un famosissimo articolo scritto nel 1965 per Il Giorno, Calvino denunciò l’incontrollata proliferazione dell’antilingua, un bubbone che ancora oggi – tra burocratese, medicalese, aziendalese – infesta la comunicazione sia scritta che orale. Ai nostri consumatori l’antilingua non piace. Crea una distanza che nei casi migliori produce noia, nei casi peggiori irritazione. Perché è la lingua di chi crede di dire tanto e invece non sta dicendo niente.
7. Hai presente la favola di Esopo del lupo e dell’agnello? Ciò di cui ci parla – la prevaricazione che i più forti talvolta esercitano su chi è più debole di loro – è un concetto astratto, ma viene comunicato attraverso un’immagine e dei personaggi molto concreti. Quando parliamo e ancor più quando scriviamo, siamo vittime dell’irresistibile fascino dell’astrazione: le parole astratte, crediamo, ci fanno sembrare più esperti, più evoluti, più intelligenti. Sono un tonico per l’autostima. La nostra. Perché in chi ci legge o ci ascolta l’astrazione produce noia e disinteresse. Ma, soprattutto, una comunicazione astratta difficilmente viene ricordata.

Un lupo contesta a un agnello (probabilmente neo-assunto) alcuni errori strategici di posizionamento
8. Forse ti hanno raccontato che la nostra memoria funziona come un archivio con tante cartelle: per ogni ricordo c’è una cartella pronta ad accoglierlo. Non è proprio così. La nostra memoria è piuttosto simile a un velcro, con tanti uncini. Ci sono uncini che si “attaccano” a informazioni procedurali, altri a informazioni visive, altri a informazioni olfattive e così via. I messaggi che si attaccano a più uncini sono quelli che ricordiamo meglio. I tuoi testi si fanno vedere, annusare, ascoltare, assaggiare, toccare? Se sì, sei sulla buona strada per diventare memorabile. Se no, no.
9. Quanti numeri, cifre, percentuali, statistiche ci sono nei tuoi testi? Se assomigliano a un manuale di trigonometria stai correndo un grosso rischio: che i conti non tornino, ossia che il tuo consumatore, anziché lasciarsi conquistare dall’eloquenza del calcolo matematico, preferisca dedicarsi a letture più coinvolgenti. Cip e Dan Heat ci mostrano un bell’esempio nel loro Made to Stick. Prendiamo questo testo:
Consideriamo i risultati di un’indagine condotta su un campione di 23mila impiegati: solo il 37% ha chiara la mission della propria azienda. Solo uno su 5 ne condivide con entusiasmo gli obiettivi. Solo uno su 5 ha chiara la relazione fra i suoi compiti e gli obiettivi dell’azienda. Solo il 15% pensa che l’azienda li metta nelle condizioni di conseguire gli obiettivi prefissati. Solo il 20% ha fiducia nell’azienda.
Quante volte hai letto testi simili nei manuali di marketing o management o nelle presentazioni aziendali? Tante, purtroppo. Eppure le stesse informazioni potrebbero essere trasmesse in modo molto più efficace. Ad esempio così:
Se una squadra di calcio si trovasse nelle stesse condizioni, solo 4 giocatori su 10 saprebbero qual è la loro porta. Solo 2 su 11 sarebbero interessati a saperlo. Solo 2 su 11 conoscerebbero la propria posizione in campo e cosa devono fare. Tranne 2 giocatori, tutti gli altri giocherebbero contro la propria squadra e a favore di quella avversaria.
Una bella differenza, vero?
10. E infine, i tuoi testi raccontano una storia? Però no, su questo non ti dico nulla. Puoi leggere quel che ho già scritto qui e qui.
Buon rientro!