Meditazione sulla Zenith: esperimento
Dell’oggetto
È una Zenith grigio chiaro. È adagiata sopra un piano in finto wengé, marrone scuro quasi nero, con riflessi rossicci. Il corpo, più chiaro, risalta. Il profilo, più scuro, tende a perdersi. Il braccio, sempre scuro, sembra quasi staccarsi dal corpo per migrare verso il legno: per contiguità o affinità o somiglianza tonale. C’è un piccolo foro, disegnato sul bordo esterno: una via di scampo per l’occhio. I rivetti sono sei: tre, più grandi, in metallo lucido; tre, più piccoli, verniciati della stessa vernice del corpo. La loro disposizione sembra casuale: non danno l’impressione di formare un disegno e men che meno un ritmo: i rivetti giacciono sparsi sulla pelle, come nevi – alcuni rilevati, altri quasi piani. Da questa angolazione, la Zenith mi appare come una massa piuttosto compatta, coesa, l’unico tentativo di disarmonia derivante da quel braccio più scuro. La fessura per l’inserimento dei fogli quasi non si nota.
Della fuga dell’occhio guardando l’oggetto
Guardare la Zenith e basta, è impossibile. L’occhio finisce per allontanarsi dal corpo e sconfinare nel piano in finto wengè scuro. Non c’è nulla d’interessante da guardare, nel piano in finto wengè scuro. Ci sono alcune ditate: aloni sudati, cerosi, poco più scuri dello scuro. C’è un leggero pulviscolo bianco, come briciole di cotone. L’occhio si allontana ancora, alla ricerca di qualcosa d’altro, altro che possa tracciare confini: quasi che la visione della Zenith fosse intollerabile, così al centro di uno spazio indefinito e potenzialmente infinito. L’occhio cerca fine e definizione. Il primo limite cercato dall’occhio consta, in direzione nord (immaginando la Zenith all’interno di una mappa o di un grande mare), della tastiera del computer. Come il piano in finto wengè, la tastiera è scura. Nera. Nel suo essere scura, nera, la tastiera non definisce, rispetto al piano in finto wengè, uno stacco cromatico, ma piuttosto volumetrico: è rilevata di un mezzo centimetro, quasi sospesa. In direzione est, l’occhio incontra un tappetino per il mouse: sempre di colore scuro, sempre rilevato: ma di un paio di millimetri al massimo. Ci sono dei disegni: un topo, tracciato in colore verde smeraldo. Sotto il topo c’è scritto: “mouse”. Il lato ovest ha margini confusi, che imbrogliano: l’occhio incontra il cavo di un alimentatore – nero, tranne per l’etichetta gialla di allarme – attorcigliato a un secondo cavo – sempre nero, ma più sottile – che è quello del mouse che sto usando per scrivere. A sud il piano in finto wengè s’interrompe: l’occhio è costretto a precipitare, atterrando su un piano di tessuto rosso scuro, sintetico, sbiadito dal sole, con una lieve infeltritura di grumi grigiastri. L’occhio potrebbe a questo punto continuare: potrebbe assecondare il profilo curvo della seduta – una poltroncina da ufficio – oppure ritornare al piano in finto wengè. Potrebbe ripercorrere il cavo, l’alimentatore, la tastiera. Potrebbe spingersi ancora oltre. Lo sguardo potrebbe includere tutta la tastiera del computer (non solo il margine) e il computer stesso (ossia il monitor) e la piccola telecamera (a forma di ufo o di casco da palombaro) che gli sta appollaiata sopra e la parete bianca e il confine poco più chiaro che sfocia sul soffitto e i tre faretti fissati al soffitto e il bulbo bianco di questi faretti e l’intonaco bianco che prosegue, lo sguardo potrebbe includere l’angolo della parete alle mie spalle oppure fuggire oltre la porta, attraversare altre porte, incunearsi in altre stanze, scivolare lungo il riflesso lucido sul pavimento: ma così facendo, la Zenith si ridurrebbe a un punto minuscolo di grigio nel mondo.
Della composizione che conchiude l’oggetto
Per costringermi a una composizione – ossia alla creazione di un sistema chiuso avente come centro, come punto di partenza e di arrivo, la Zenith grigio chiaro – scatto una foto. La pubblico su Instagram con la didascalia: Zenith: composizione. Pubblicando, io ho assunto l’impegno di far esistere. Pubblicando, io ho dato modo alla composizione di essere guardata, dunque di esistere in quanto composizione. Dichiarando la composizione, io ho preso un impegno non solo nei riguardi del cosa, ma anche nei riguardi del come: l’immagine come realtà composta. Guardo la foto dal telefono cellulare. Adesso sì: il senso della composizione c’è tutto. C’è la necessità di creare dei limiti, dunque di addomesticare lo spazio. In alto, la tastiera del computer è visibile solo per quattro tasti. A sinistra, s’intravvede l’alimentatore con un pezzetto di etichetta gialla e il cavo che, in questa posizione, lo sormonta. In basso, non avendo oggetti a delimitare lo spazio, ho fatto sì che la Zenith uscisse dall’inquadratura, in modo da bloccarla. Mi accorgo che è molto più facile descrivere l’oggetto così. No: che è molto più facile guardarlo. La difficoltà nel descrivere non è trovare le parole, ma piuttosto l’ordine con il quale queste parole vengono usate: la composizione fotografica presuppone già un certo tipo di ordine, è già una narrazione (dell’oggetto? con l’oggetto? a proposito dell’oggetto?). Mi viene in mente che anche quando visito i musei, le mostre, finisco (quando è consentito) per fotografare i quadri o le sculture, per poterli guardare (anche) da monitor. Tela, monitor, tela, monitor, tela, monitor. Mi sono sempre data questa spiegazione: la foto impasta la luce e rende i colori più sodi, visibili. Mi sono sempre convinta che la mia necessità di fotografare e di guardare l’opera attraverso la fotografia fosse motivata da questa sodezza e da questa comprensibilità del colore. Ora mi domando se non c’entri piuttosto una necessità di composizione: comporre mi aiuta a non precipitare verso l’indeterminatezza delle infinite possibilità. La composizione è un corrimano.
Dei limiti della composizione, nel conchiudere l’oggetto
Certo è che la foto ha i suoi bei limiti. Per cominciare, guardandola, non sento alcun odore. Non sento alcun rumore o sapore. Non provo alcuna sensazione tattile. Torno a osservare la Zenith sul tavolo: stavolta non più come oggetto di composizione, dunque di descrizione, ma come oggetto per farci qualcosa. È possibile descrivere questo fare? Mi accorgo di una cosa: in questo momento, mentre scrivo, sono seduta alla scrivania dello studio con la finestra aperta (è una giornata di metà luglio: calda ma ventilata). Al di là della finestra, gli alberi espongono le loro chiome rigogliose, investite dal sole, mascherando l’intonaco color amaranto delle case dirimpetto. Dalla finestra, entrano i rumori: il ronzìo meccanico di un tosaerba; un vociare di bambini; due donne che parlano fitto; qualcuno che picchia con il martello. Sotto la finestra, – sarà un metro e mezzo circa di dislivello – c’è una tettoia: ondulata, in policarbonato. Di tanto in tanto, sopra la tettoia piomba un uccello (passeri o merli: ma nel quartiere abbiamo anche un paio di colombi): allora si sente un rumore sordo, secco, definitivo. Mi accorgo, ora che guardo la Zenith, che il rumore degli uccelli sulla tettoia, quel sordo, secco, definitivo piombare di zampe, in me evoca e sollecita il suono della Zenith quando pinza un foglio. Mi accorgo, in altre parole, che la Zenith non solo nella mia memoria ha un suono (suono che in questo momento non si sta producendo), ma che questo suono è così fortemente legato alla Zenith da sollecitare, di se stesso, mentre io guardo, il desiderio.
Del diventare, dell’oggetto, altro
Ho preso in mano la Zenith. Ne ho infilato la bocca su un foglio. Ho premuto: mezza corsa, fine corsa, due colpi secchi: ka-kan. Lo stesso ritmo binario (percussione – recessione) prodotto dalla tettoia su cui balzano gli uccelli. Sul foglio, adesso, c’è la sutura della graffetta. E io mi rendo conto di aver scritto (pensato), a proposito della Zenith: “bocca”. Riprendo in mano la Zenith e la tengo sollevata a mezz’aria: il pollice premuto sul dorso (“dorso”), le altre dita a premere la pancia (“pancia”). Sono ormai otto nove anni, che la Zenith la uso poco: è raro che io stampi ciò che scrivo, dunque che io abbia la necessità di pinzare dei fogli. Quando, alla fine degli anni Novanta, lavoravo come tutor per dei corsi di formazione (FSE, al Museo dello Scarpone di Montebelluna), il mio uso della Zenith era pressoché quotidiano. Io la chiamavo: “la balena”. Passami la balena. Dov’è finita la nostra balena? Troppi fogli: la balena non ce la fa. Guardo la Zenith sollevata a mezz’aria: il paragone, niente da dire, è piuttosto scontato: la parte sinistra è il muso, lo spazio che accoglie i fogli è la bocca spalancata, e uno dei rivetti corrisponde all’occhio. Addirittura si intuisce una sorta di movimento: la Zenith non è una balena e basta, ma una balena che emerge dall’acqua per poi rituffarvisi: il braccio che viene premuto è una pinna o la scia lasciata dall’acqua o un’onda. Il piano in finto wengè è un mare liscio, oleoso, notturno, verso cui la balena tende o da cui la balena proviene. Credo di aver fatto qualche gioco e scenetta con mio figlio piccolo, utilizzando la Zenith-balena: perché è evidente che non si tratta di una balena realistica, ma di una balena-fumetto, una balena stilizzata, una forma di quelle da colorare, negli album per bambini. Ricordo anche che: attaccavamo, noi tutor, con lo scotch, sul fianco della Zenith, una strisciolina di carta: con, in corsivo, il nome del proprietario o dell’ufficio. La “o” di “contabilità” era scritto male: si leggeva “cantabilità”. Ora che ci penso, mi sembra che il verso della balena sia proprio questo: cantare.
Dei ricordi dell’oggetto
Negli anni che usavo la Zenith, credo di aver avuto più relazioni con la Zenith che con tante persone. Credo, anzi, che molte delle mie relazioni con le persone accadessero proprio attraverso la Zenith. Chiederla in prestito. Chiederla in restituzione. Cercarla. Domandare dove fosse. Portarla in aula a un insegnante che ne aveva bisogno. Acquistare le graffette. Farsi aiutare a sbloccare le graffette incastrate. Oggi tutte queste relazioni sono state dimenticate. Conservo la genericità delle situazioni – chiedere in prestito, reclamare, acquistare le graffette – ma non la specificità di una qualche situazione. Non ricordo quella volta che l’ho chiesta in prestito a. Non ricordo quella volta che l’ho reclamata da. Ricordo la presenza della Zenith, ma non la presenza delle persone. La Zenith ora riesce a rievocare se stessa in relazione alle persone, ma non le persone stesse.
Della conoscenza dell’oggetto
Della Zenith conosco poco o nulla. So che questo modello lo producono tal quale da molti anni (quanti? lo ignoro). So che esistono della varianti con il corpo in plastica (che ho sempre evitato di comprare, perché mi sembrano meno robuste). Non so nient’altro. Mi domando come cambierebbe la mia percezione della Zenith se io conoscessi un po’ di più. Allora prendo un libro che ne parla: “Design anonimo in Italia”, di Alberto Bassi, edito da Electa. È un catalogo di “oggetti comuni e progetto incognito”. Si parla anche della Zenith, alle pagine 162 e 163. La pagina 162 ospita un testo disposto in tre colonne e una foto della Zenith (che qui è blu scuro). La pagina 163 ospita invece due tavole con disegni tecnici. Leggendo apprendo che: la Zenith che io possiedo non è una Zenith qualsiasi ma una Zenith 548. Che è stata progettata nel 1948 da Aldo Balma (il generico “molti anni” diventa “settant’anni”). Che Aldo Balma ha inventato anche la colla Coccoina, nel 1927 (questo rende la Zenith ancora più affascinante, perché la colla Coccoina è un prodotto affascinante). Che l’interno della Zenith – ciò che è contenuto dall’involucro di metallo che io ho chiamato “corpo” – è formato da ben ventidue elementi. Leggendo, imparo anche che l’alloggio dei punti metallici si chiama “treno” e che quella che io chiamavo “bocca”, qui viene chiamata “ghigliottina”.
Dell’immaginazione sull’oggetto
Non so se mi piace l’idea che la bocca della Zenith-balena stia ghigliottinando qualcosa. Ho sempre immaginato la bocca di una balena come qualcosa di accogliente: la bocca inghiotte una grande quantità di acqua e poi questa grande quantità, questa grossa massa liquida contenente piccole vite, viene filtrata dai fanoni. Quando giocavo con mio figlio piccolo e la Zenith-balena, le graffette aggrappate alla carta erano fanoni: filtravano il plancton, il krill e altri piccoli crostacei. Il plancton è il cibo preferito della balena: dicevo a mio figlio piccolo. La balena cattura il plancton con i fanoni, poi lo intrappola con la sua gigantesca lingua: dicevo a mio figlio piccolo. La molla della Zenith era la gigantesca, lunghissima lingua della Zenith-balena. Mio figlio piccolo chiedeva perché: i denti si vedessero solo quando aggrappati alla carta. Rispondevo che la balena ha talmente tanti fanoni che a volte, quando mangia, quando si nutre, qualcuno di questi denti cade. Ogni graffetta aggrappata al foglio era un dente caduto di balena. La Zenith-balena non ghigliottinava, ma masticava. Il foglio era il suo cibo. Il foglio era il plancton, il krill, e gli altri piccoli crostacei. Il foglio era il nutrimento della balena e la graffetta sul foglio la prova che la balena si era nutrita, e che sarebbe sopravvissuta. Adoperando la Zenith, io e mio figlio piccolo proteggevamo la vita della balena. Questo è ciò che della Zenith è sopravvissuto: su di lei, l’immaginazione.
Delle possibilità dell’oggetto
Prendo in mano la Zenith. È metallo, freddo. Non sento nessun odore: ma se fosse, sarebbe odore ferroso. Quando la muovo, quando premo la pinza per arrivare a metà corsa, sento rumori metallici: adesso so, che dentro quel corpo ci sono ventidue piccoli elementi che fanno qualcosa. Come sarebbe la Zenith se non esistesse il metallo? Se il corpo – anziché quel guscio grigio, diffondente tutti quei rumorini meccanici – fosse di legno? Mi è capitato di vedere, qualche anno fa, dei telefoni cellulari fatti in legno e anche dei computer: ricordo dei tower in legno, delle tastiere in legno, dei mouse in legno. Una Zenith tutta fatta di legno: credo che sarebbe possibile. Prendo in mano la Zenith di legno: il corpo è caldo, ora, e sento le piccole asperità della superficie. I rumori sono attutiti, specie quando appoggio la Zenith sul piano: prima, il contatto produceva un suono deciso, anche con un movimento minimo. L’odore che mi arriva (anche se non lo sento) è resinoso e silvestre. La Zenith-balena è adesso una balena con la pelle di legno. Una pelle rugosa, cotta dal sole, una pelle di animale marino che può diventare terrestre. Una pelle di animale del principio. Se avessi giocato con la Zenith-balena di legno e mio figlio bambino, certo avrei parlato di Pinocchio. Pinocchio inghiottito dalla bocca della balena, incarcerato dietro i suoi fanoni, intrappolato dalla sua gigantesca lingua assieme al plancton, al krill, agli altri piccoli crostacei. Forse, avrei detto a mio figlio piccolo, la balena è diventata di legno per invidia verso Pinocchio. Forse, avrei detto a mio figlio, la balena ha avuto per un attimo l’intensissimo desiderio di non essere più colei che divora, ma colei che viene divorata. Forse, avrei detto a mio figlio piccolo, questo intensissimo desiderio ha fatto indurire la pelle della balena, l’ha fatta raggrumare così come si raggruma il legno a formare corteccia, la balena ha visto il suo enorme corpo diventare di una vecchiaia infinita e però non più: corpo nutrentesi di vita. Questa è la possibilità che io e mio figlio piccolo avremmo guardato essere: per la balena.
La spiegazione di tutto ciò
Quando, nel mio lavoro di consulenza, chiedo di produrre descrizioni sul prodotto, sul marchio o sull’azienda stessa, ne ottengo per lo più i giri di frase fatti delle brochure (l’arcinoto e stantìo: leader nel settore da vent’anni), oppure delle descrizioni tecniche (una versione un po’ più evocativa delle schede prodotto) o ancora dei concetti astratti, generici contenitori di senso dove entra un poco di tutto: innovazione, libertà, comfort, eccetera. Se anche cerco di fare dello “scavo” con le interviste, il livello di immaginazione resta sempre piuttosto povero. La mia percezione è che una ricchezza realmente ci sia, che esista una narrazione sui prodotti e con i prodotti e attorno ai prodotti, ma che questa non riesca a scaturire. La scrittura dovrebbe aiutare a fare questo: a far scaturire immaginazioni inconsapevoli.
Perché funziona.
Scrivere un testo narrativo comporta una buona dose di scoperta: è vero, da un lato, che si trasferisce su carta un contenuto già formato nella mente; ma è anche vero che si assiste al formarsi di questo contenuto a mano a mano che si scrive. È come se la nostra immaginazione fosse una cassetta degli attrezzi dove c’è tutto, ma proprio tutto: martello, tenaglia, diversi tipi di cacciavite, chiave inglese, chiave a bussola, seghetto, metro a nastro. Ma finché non abbiamo necessità di piantare un chiodo, non ci verrà mai in mente di prendere il martello.
Il testo-esperimento che ho scritto parte dall’osservazione: si osserva, attraverso la scrittura, per imparare a guardare, ossia per fare lo sgambetto a certi automatismi della visione. Questo è particolarmente efficace per chi è abituato a lavorare con immagini e oggetti: osservare con uno strumento diverso è un’ottima occasione per scoprire non, all’esterno di sé, cose nuove, ma, all’interno di sé, occhi nuovi.
Il testo-esperimento dilata l’osservazione dall’oggetto al contesto: e questa dilatazione è il primo passo verso l’immaginazione. Prima di iniziare a scrivere, io non avrei saputo in tutta onestà che dire, sulla Zenith. Avevo – come la scrittura poi ha rivelato – dei ricordi, ma a una prima osservazione o al semplice costringermi a pensare alla Zenith, non comparivano. Questi ricordi erano attrezzi, chiusi nella loro cassetta, nella mia testa, senza che io avvertissi alcuna particolare necessità di usarli. Scrivendo, è comparso il ricordo della Zenith-balena e questo ricordo, scrivendo, si è ulteriormente precisato, definito. È diventato una visione. La visione della Zenith-balena è resistita (anzi: si è approfondita) anche quando ho tentato uno scarto, ossia quando ho spostato l’osservazione della Zenith su una pura immaginazione: una Zenith fatta di legno. Cosa significa questo? Che il valore che io ho associato alla cucitrice Zenith è: gioco. Un valore del quale io non avevo minimamente consapevolezza, prima di iniziare a scrivere. La Zenith, prima di iniziare l’esperimento dello scriverne, era per me una semplice cucitrice: robusta. L’avrei detta robusta e basta. Non avrei mai pensato a lei come: gioco.
Riassumendo:
– noi sappiamo, sulla nostra azienda, sul nostro prodotto, sul nostro marchio, molte più cose di quelle che crediamo di sapere;
– non solo sappiamo, ma sappiamo immaginare; ed è l’immaginazione a dare spessore all’azienda, al prodotto, al marchio; senza immaginazione, una cucitrice è e resta solo una cucitrice;
– non è facile sollecitare le immaginazioni: occorre un buon motivo per farlo; la produzione di documenti strategici, così com’è fatta ora, inibisce l’immaginazione (numeri e statistiche, peraltro, sono potentissimi inibitori);
– se anche noi non vogliamo accettare di avere immaginazioni a proposito del nostro prodotto, della nostra azienda, del nostro marchio, questo non impedirà ai nostri consumatori di averne. Anzi: i consumatori ci preferiranno oppure no in base alle loro immaginazioni (Zaltman le chiama costrutti e mappe di consenso);
– progettare senza immaginazione significa spogliare il progetto del senso, dunque non progettare;
– scrivere (non ipotizzare di scrivere e neppure raccontare perché altri scrivano: ma scrivere) aiuta a sollecitare l’immaginazione;
– si scrive partendo dalla lettura: i testi altrui, scelti con accortezza, ci danno le forme, i gusci da riempire con la nostra immaginazione. Sono il muro e il chiodo che ci costringe a tirare fuori dalla cassetta il martello.
Ho fatto questo esperimento nel corso di una giornata, e senza tornarci su troppo. Avrei voluto, a esempio, esplorare maggiormente le immaginazioni legate al suono, che sento essere nella Zenith un elemento importante. Mi limito a mettere due video.
Matte Kudasai dei King Crimson (il canto della Zenith-balena)
SHOWstudio: Sound of Clothes: Studio Sessions – Mary Katrantzou (le graffette)