Philip Roth, Pastorale americana
Ho cominciato a leggere “Pastorale americana” per via di un mistero: perché mio padre, così devoto a Čechov, Gogol e gli altri russi e comunque alla letteratura dell’Ottocento, massimo prima metà del Novecento, improvvisamente ha comprato sei Roth di fila? Lo scrittore, è vero, è mancato quest’anno. Il Corriere, è vero, ne sta ripubblicando l’opera ma questa, che pure può essere una motivazione valida, non è di certo una motivazione sufficiente. E allora perché?
Mi sono accostata a Roth con questa curiosità, ma anche con una buona dose di scetticismo. Non amo la narrativa nordamericana. Amo l’asciuttezza di Hemingway, ma il romanzo sul quale continuo a tornare è “Addio alle armi”, ambientato in Italia. Di Carver riconosco il valore, ma non mi conquista. Kerouac l’ho iniziato e abbandonato troppe volte: alla fine – per il bene di entrambi – ho desistito. Faulkner, Wallace, Franzen, Fante eccetera al massimo spiluccati. È un respingimento fisico quello che mi prende, una reazione di rifiuto che il mio corpo ha già dopo poche pagine. I libri sono posti dove stare. In alcuni ti ci trovi bene: ti senti a tuo agio nello sprofondare sul divano, nel prepararti un tè, nell’andare in bagno e usare spazzolino sapone e asciugamano. In altri ti senti insofferente e non vedi l’ora di andartene. Gli oggetti che ti circondano non ti dicono nulla, o dicono qualcosa in un modo che t’infastidisce o senti distante. Sono opere-guscio di un immaginario che non ti corrisponde.
L’immaginario americano mi corrisponde poco. Non mi corrispondono i grandi spazi e le Montagne Rocciose e i grattacieli con l’aria condizionata freddissima. Non mi corrisponde New York, la California, la provincia sperduta e spesso abbrutita. Non mi corrispondono le mazze da golf, i guantoni autografati, la reginetta del prom, il tacchino farcito nel giorno del ringraziamento e il latte bevuto a pranzo e cena, i juke box e il gin, la vita on the road e i campus con le loro siepi ordinate e pulite, suburbia, i macaroni and cheese, Halloween, gli Zooties e i B-boys, le giacche alla Ivy League e i penny loafer. Non mi corrisponde il burro di arachidi per i sandwich da mangiare a scuola in pausa pranzo. Reali o cliché che siano – ma ogni realtà che venga traslata ripetutamente in finzione degenera in cliché – tutte queste cose non m’interessano.
E però le conosco: persino meglio di altri immaginari – quello sudamericano, a dirne uno – che mi affascinano di più. Per una decina buona d’anni la mia dieta di lettrice è stata composta, per via del lavoro che facevo e che in parte faccio ancora, per un settanta percento buono di saggistica: prevalentemente in inglese e per lo più di autori americani. Il mio pensiero si è nutrito del succo estratto a furia di ganasce stritolanti (e non sempre così vogliose) dalla ruminazione di McCracken, Polhemus, Gladwell, Rogers, Kotler, Strauss, Howe e decine di altri, maggiori e minori, significativi e trascurabili. A questi va aggiunta la visione – anche qui per lo più strumentale – di decine di tv show in lingua originale, dai più belli ai più biechi, per “tener su l’inglese”. Ho sguazzato a lungo dentro l’immaginario americano, ne ho palpato la sodezza e constatato la forza. Ho sostato nella casa con le mazze da golf, i guantoni autografati, la reginetta del prom, il tacchino farcito eccetera e posso dire: bella l’America, ma non ci vivrei.
Quando ho iniziato Roth, dunque, mi aspettavo di entrare in uno spazio le cui coordinate e il cui contenuto grosso modo conoscevo, ma che non avrei mai sentito come mio. Uno spazio in cui non sarei forse riuscita a trattenermi per tutte le 457 pagine del romanzo, che mi avrebbe infastidita prima, prima ancora di capire cosa avesse potuto condurre, così stranamente (perché anche lui è del tutto estraneo a questo immaginario), mio padre lì. Mi sbagliavo: non meno di quanto Nathan Zuckerman si sbagliò dopo la sua serata al ristorante con un ormai anziano, ma sempre splendido e vincente, Seymour Levov. Non avrei mai sospettato che in “Pastorale americana” avrei finito con il ritrovarmi: prima per affinità e poi per differenza. Ma ritrovarmi.
Di cosa parla “Pastorale”? Le sinossi in Internet si sprecano e non è il caso di produrne una qui. L’estrema sintesi, peraltro, la fa Roth stesso, fin dall’inizio (o meglio prima dell’inizio) e con parole nemmeno sue:
Dream when the day is thru,
Dream and they might come true,
Things never are as bad s they seem,
So dream, dream, dream.
Questa canzonetta degli anni Quaranta, piazzata in esergo, dice effettivamente tutto ciò che Roth vuole dire e che noi dobbiamo sapere: “Pastorale” parla del sogno americano. Dunque dell’America, perché l’America è questo: Il Sogno. Il traguardo dato dall’avere dei traguardi, lo scopo dato dall’avere degli scopi. È la potenza di questo Sogno che si erge attraverso e nonostante tutti i personaggi – da Seymour che magnificamente ma stolidamente lo incarna, vuole incarnarlo; a Jerry che ne ironizza; a Merry che ne tenta la distruzione, solo per riconfermarlo in negativo; a Nathan stesso che narra la storia e facendo questo permette al Sogno di comunicarsi. La vitalità e assieme la virulenza del Sogno non potevano esprimersi compiutamente in un Wasp, un americano tipico di razza bianca. Non poteva incarnarsi in un Orcutt, pluristellato protestante da generazioni. No, occorreva un non-americano, un non-protestante che dal Sogno potesse essere informato e trasformato, senza neppure la necessità di apostasia. Che Seymour sia ebreo tutto sommato non conta (non quanto conta che sia ebreo Marcus Messner in “Indignazione”, a esempio) o conta nella misura in cui questo essere ebreo si sottomette all’ideale: possedere quella qualità americana reificata nella figura fittizia di Giovannino Semedimela, “non ebreo, non cattolico irlandese, non cristiano protestante”. Semplicemente un americano felice. E felice perché sognante.
Il Sogno, per i Levov – dal nonno, emigrante di primo pelo, spaccatosi la schiena come scarnitore di pelli di montone appena sbarcato dalla madrepatria; al padre Lou, che riesce a mettere in piedi una fabbrica piccola, poi una fabbrica più grande, poi a tirarci dentro il figlio; a Seymour stesso, che rifiuta una promettente carriera come atleta per conformarsi al suo destino, il destino del Sogno (il Sogno americano è un sogno collettivo composto di tanti sogni individuali, è l’individuo che persegue il suo proprio sogno permettendo la sussistenza di questa realtà sovrasensibile, collettiva e sognante) – per i Levov americani da tre generazioni il sogno è l’azienda.
“Quando scoppiò la guerra, Lou Levov aveva un gruppo di famiglie italiane che tagliavano e cucivano guanti di capretto in un solaio di West Market Street. Era un’attività marginale, che rendeva poco, finché, nel 1942, arrivò la fortuna: un guanto nero, in pelle di capretto foderata, ordinato dal Corpo delle Ausiliarie. Lou prese in affitto la vecchia fabbrica di ombrelli, un edificio di mattoni che aveva cinquant’anni, alto quattro piani e annerito dal fumo, all’angolo tra Central Avenue e la Seconda Strada, e poco dopo la comprò, affittando l’ultimo piano a una fabbrica di cerniere lampo. La Newark Maid cominciò a sfornare guanti, e ogni due o tre giorni il camion arrivava e li portava via”.
Questo racconto, non ovviamente per forma bensì per tipologia di contenuto, io lo conoscevo già:
“Siamo partiti nel 1977. Mio fratello faceva il tagliatore di tomaie per conto terzi e possedeva alcuni macchinari. Dopo il servizio militare abbiamo pensato di unirci (prima facevo l’idraulico) e di metterci per conto nostro. Abbiamo lavorato in una ditta del settore per un anno e ci siamo fatti le ossa, dopodiché abbiamo acquistato una nuova trancia in aggiunta ai macchinari del tomaificio e poi, via via, altri macchinari. Erano anni molto buoni. Si lavorava e si guadagnava. Noi comunque non abbiamo mai fatto il passo più lungo della gamba, ci siamo sempre autofinanziati e non abbiamo mai chiesto prestiti”.
Ma anche:
“Trovo un buco di negozio, io stesso giro in moto per rifornire di scarpe la scarsa clientela. Mia moglie si occupa dell’amministrazione. Un operaio, due, dieci. Una stanza, un capannone: un pezzo dopo l’altro, come nelle costruzioni che fanno i bambini.”
Sono due delle brevi storie di imprenditori veneti – montebellunesi per la precisione, di quel distretto della calzatura sportiva che negli anni Settanta copriva il 70% della produzione mondiale di scarponi da sci – che nella sua attività di storico locale mio padre ha raccolto, pubblicandole in brevi saggi dalla circolazione semiclandestina. Leggendo dei Levov, di questa particolare forma del Sogno americano, mi sono sentita inaspettatamente a casa. Inaspettatamente, sì, perché nella mitologia della quale mi sono nutrita attraverso i vari Kotler, Sinek eccetera i connotati tipici dell’imprenditore yankee sono tutt’altri. È lo Steve Jobs di stay hungry stay foolish, un uomo principalmente di comunicazione, di testa più che di mani. È Phil Knight, per restare nel settore che più conosco, socio fondatore di Nike assieme a Bill Bowerman. Dei due, è Knight a essere passato alla storia. Lui, il laureato in marketing che intuì il business del farsi produrre le sneaker dai giapponesi perché costavano meno, poi dei taiwanesi perché costavano ancora meno, poi da cinesi perché costavano meno ancora, l’uomo che disse: “Nike è un’azienda orientata al marketing e il prodotto non è altro che un suo strumento”. L’altro, il socio, l’allenatore-inventore, quel Bill che ideò la suola waffle guardando la moglie armeggiare con una piastra da dolci, sta nella testa degli sportivi e dei collezionisti (perché esistono i collezionisti di scarpe da ginnastica, ovviamente).
Ma nella coppia Lou-Seymour, in quel padre che dice “Posso insegnarti una volta per tutte, Jerome, come si conservano le pelli?” e in quel figlio che dice: “La fabbrica sì che era un posto dove volevo stare fin da quando ero piccolo”, mi sono imbattuta in un Sogno americano poco esotico e molto domestico, del tutto simile a quel sogno veneto in cui mi sono trovata immersa, piacendomi oppure no, in oltre vent’anni di lavoro a contatto con l’imprenditoria locale.
“A Gloversville, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, dovevano esserci circa novanta fabbriche di guanti, grandi e piccole. Oggi non ce n’è una: sono tutti falliti o importano all’estero. – Gente che non distingue una lanzetta da un pollice, – disse lo Svedese. – Sono uomini d’affari, sanno se hanno bisogno di centomila paia di questo o duecentomila paia di quello in questi colori e di queste misure, ma non conoscono i dettagli della produzione vera e propria.”
Cosa c’è di diverso fra lo Svedese che lamenta il declino dell’industria guantiera di Newark e l’imprenditore montebellunese che rimpiange i tempi delle orlatrici capaci di “fare una norvegese”? Ne ho ascoltati a centinaia, quando curavo per l’oggi defunta Veneto Banca il rapporto sull’industria calzaturiera del comprensorio Asolo-Montebelluna: tra le quattro e le cinquecento telefonate l’anno – tante erano le imprese, in calando negli anni – per lo più piccole e medie. Uomini e (poche) donne che mi tenevano agganciata al telefono per confessarsi, lamentarsi, augurarsi che, deprecare e talvolta imprecare, scaricare giù santi dal cielo e addosso alle banche, alle tasse, al governo, ai sindacati, alla Romania, ai rumeni, agli austriaci, ai taiwanesi, ai cinesi, e persino addosso a me, che anziché dare risposte stavo lì a gingillarmi con le domande. Era il periodo del decentramento in Est Europa e molti, i più piccoli, i più deboli, quelli che lavoravano con la tagliola dell’esclusiva, i sottocapitalizzati, avrebbero chiuso di lì a poco. Erano artigiani con il mestiere nelle mani e che avrebbero descritto come si mette in forma una tomaia sulla calzera così come Lou Levov descrive a Rita Cohen come si taglia un guanto: “Tagliare un guanto è un’arte. Non esistono due pelli identiche. Le pelli sono tutte diverse tra loro, a seconda dell’alimentazione e dell’età dell’animale, diverse come elasticità, e ci vuole un’abilità stupefacente per far sì che ogni guanto venga come tutti gli altri”. Un’abilità stupefacente appunto, non uno stupefacente pensiero.
E dunque è questo? Ed è tutto qui? Come ogni grande opera, “Pastorale” riesce a delineare un messaggio universale e il Sogno, apparentemente americano, è in realtà un Sogno generale, trasversale, cosmopolita, il Sogno dell’essere umano (non americano ma di ogni dove) capace di sognare. La caduta – quella figlia Merry, che sconciamente dirazza – non è altro che il concretarsi del mantra che prima o poi a chiunque si occupi di consulenza alle imprese tocca sentire, se non addirittura vedere in azione: il padre crea, il figlio trasforma, il nipote distrugge. Così ho pensato: e per la seconda volta, ingannandomi, ho pensato male.
Fra gli autori che i miei studi di marketing mi hanno fatto incontrare c’è Clotaire Rapaille. Rapaille non è americano bensì francese, un francese emigrato negli Stati Uniti in non troppo giovane età. Questa condizione di cittadino diviso e forse di apolide gli ha permesso di guardare l’America da dentro, ma forte di una posizione per così dire eccentrica. La sua formazione come psichiatra lo ha dotato di uno sguardo la cui profondità e perspicacia è mediata da un obiettivo concretissimo e magari prosaico: fornire informazioni qualitative – tecnicamente noi li chiamiamo insight – sul comportamento delle persone che, nel loro vivere, acquistano e consumano merci. Circa un mese fa, e parallelamente alla lettura di “Pastorale”, ho ripreso in mano il suo saggio: “The Culture Code: an ingenious way to understand why people around the world live and buy as they do” (Broadway Books). Rapaille, attraverso una tecnica che non mi dilungo qui a spiegare, riesce a snudare di ogni cultura gli archetipi, i codici fondamentali, quelle concezioni così profondamente incistate nel pensare e nel sentire di un paese da influenzare il modo in cui la sua gente processa le informazioni.
In “The Culture Code” gli archetipi svelati sono quelli della cultura americana (le altre culture compaiono solo come termini di confronto) e le due letture – Roth e Rapaille –, prima parallele, hanno finito per incrociarsi in un modo per me interessante. Rapaille spiega i codici per bellezza, salute, lavoro, denaro, cibo, soldi, lusso, perfezione e una quantità di altri concetti e in quasi tutti mi sono scoperta a ritrovare una corrispondenza esatta nel romanzo di Roth. Ecco come Rapaille descrive il codice per “sesso”:
“When I read what people write during discovery session, I look not at what they say (remember, you can’t believe what people say), but at the common messages. I don’t look at the context, but at the grammar. Not the content, but the structure. In doing this with the pieces people wrote about sex, I noticed something in the cadence of the writing; in the regular appearence of words like “I felt beaten up” or “I wondered how I would make it”; in the use of clipped sentences and a certain breathless in the tone. It brought to mind confrontation, but not the kind of confrontation that is resolved peacefully, with both sides coming away winners. Rather, it brought to mind the kind of confrontation that always has at least one loser and often two. A violent confrontation.
In fact, the American Culture Code for sex is violence.
[…]
The Code for sex in another negative one, yet American marketers use sex to sell products – very successfully – all the time. When advertisers sell with sex, they tap into the Code. While most of them don’t realize, and would be stunned to learn, that they are associating their products with violence, this works for one simple reason: Americans are fascinated with violence.”
In “Pastorale” ci sono due soli momenti in cui l’eccitamento erotico di Seymour viene esplorato, vellicato ed esposto. In entrambi i casi, questo accade dopo una qualche forma di violenza e il piacere altro non è che l’erotizzazione di questa violenza.
“Il suo corpo nella culla. Il suo corpo nel lettino con le sponde. Il suo corpo quando comincia a reggersi in piedi sulla pancia di suo padre. Il pancino che si vede tra i calzoni e la camicia quando lui torna dal lavoro e la tiene per le gambe a testa in giù. Il suo corpo quando salta e gli balza tra le braccia. L’abbandono del suo corpo che gli vola tra le braccia, accordandogli il permesso di toccarlo”.
Questa descrizione, che poi continua e si allunga e pur nel ritmo sincopato si distende, manifesta per la prima volta in modo esplicito il desiderio di Seymour per Merry. Un desiderio incestuoso, è vero, ma comunque desiderio. E compare subito dopo la descrizione di un altro stato: quello prodottosi in Seymour alla scoperta che sua figlia è stata violentata – non una ma più volte.
“Quello stupro gli era entrato nel sangue, e da lì lo Svedese non sarebbe riuscito a scacciarlo mai più. Aveva l’odore dello stupro nel sangue, la sua vista, le gambe e le braccia e i capelli e i vestiti. C’erano i suoni: il tonfo, le sue grida, l’agitarsi in un luogo ristretto. L’orribile latrato di un uomo che viene. I suoi grugniti. I gemiti di lei.”
Il desiderio per la moglie Dawn (il desiderio vero, carnale, sessuale, non la frigida adorazione per Miss New Jersey che corre nella testa dello Svedese lungo tutto il romanzo), compare pagine dopo e, anche qui, a corredo di una violenza: quella di vedere sua moglie mentre si fa scopare di tergo da un altro – un altro che peraltro sembrava che lei odiasse, il “nemico” –, la violenza di saperla perduta per sempre, improvvisamente inaccessibile.
Altro codice: quello per “grasso”.
“As a culture, we believe that tin people are active and involved. They are ʻproud and successfulʼ and their clothes ʻfit greatʼ. On the other hand, fat people, according to the stories, are disconnected from society. They turn people off, they stay inside, and they fail to interact with their families.
[…]
The Code for fat in America is checking out”.
Nel tesissimo confronto tra Seymour e Sheila – ormai la narrazione è al suo ultimo atto e Seymour nel suo palese fallimento si scopre, lascia cadere la maschera che neppure era conscio di avere in faccia e si scopre –, Sheila, nel difendere la condotta tenuta con Merry fuggiasca, non fa che tornare sullo stesso punto: “Ma avresti dovuto vederla. Era così grassa…”
Merry ha fatto saltare in aria lo spaccio, ha ucciso una persona, si è data alla fuga, ha interrotto ogni contatto con la famiglia, con il padre che la cerca ed è fuori di sé dal dolore, inveisce contro di lui, pazzamente inveisce contro il padre la madre la sua famiglia di industriali e allevatori perbene, contro questo padre sensibile e intelligente e buono e amabile e in definitiva perfetto, ma tutto questo – Merry agitata, Merry sconvolta, Merry assassina e latitante – a Sheila Salzman continua a sembrare comprensibile, ricollocabile in una qualche forma di normalità, persino emendabile. Tutto, ma non che Merry sia “così grassa”. Il grasso è sospetto, quel corpo che si gonfia, si lascia andare, rifiuta di contenersi è la devianza vera, la a-normalità degna di destare preoccupazione: “Non era più la ragazza di prima. Qualcosa era andato storto. Non vedevo lo scopo di farla tornare indietro. Era diventata così grassa…”
Altro codice, quello di pasto.
“The image that showed up in a huge percentage of the stories was the idea of coming together around a table. There is a sense of community generated by this act, the sense that you are surrounded by people who support you and are there for you. You can go out into the world, but when you return for dinner and you sita round the table, you are truly home.
The American Culture Code for dinnes is essential circle”.
In “Pastorale” il “circolo essenziale” ci viene presentato per rovesciamento. Momento di condivisione del Sogno, il pranzo nell’ultimo capitolo (siamo nel “Paradiso perduto”), si trasforma nella messinscena tragica del ritorno: le fondamenta marce, marcite, della vita edificata mattone su mattone con tanta sottomissione al destino di vincente, si presentano a Seymour in tutta la loro desolazione. Eccola la famiglia, il cerchio di affetti riunito attorno al tavolo: la moglie ha un’amante. Lui stesso ha avuto un’amante. La donna che ha amato lo ha tradito. L’altra donna che come fuga, come temporanea salvezza, ha amato lo ha tradito anch’essa. L’amico che ha tradito lo ha tradito a sua volta e poi questa figlia, Merry, onnipresente nonostante la latitanza, incombente nella sua assenza, lei, una volta per tutte, si capisce che non tornerà.
Come spesso nei libri succede – e nei saggi succede con frequenza maggiore – il buono sta all’inizio e alla fine. L’ultimo codice che Rapaille denuda è quello per la stessa America.
“The American Culture Code for America is dream.
Dreams have driven this culture from its earliest days. The dream of explorers discovering the New World. The dream of the Founding Fathers imagining a new form of union. The dream of entrereneurs forging the Industrial Revolution. The dream of immigrants coming to a land of hope. The dream of a new group of explorers landing safely on the moon. Our Constitution is the expression of a dream for a better society. We created Hollywood and Disneyland and the Internet to project our dreams out into the world. We are the product of dreams and we are the makers of dreams”.
Rieccolo, il nostro Sogno americano, canonizzato anche da Rapaille. Il Sogno in esergo a Pastorale: “Sogna, quando il giorno è passato, Sogna, e i sogni potrebbero avverarsi, Le cose non sono mai così brutte come sembrano, Perciò sogna, sogna, sogna”. Sogna, Seymour, sogna. Ma sogniamo anche noi, allo stesso tuo modo? Dopo aver messo a confronto Roth e Rapaille mi sento di dire no: il Sogno americano è peculiarmente americano. E se altri possono riconoscervisi, se io posso riconoscermi, ritrovare qualcosa della mia propria esperienza, non è per assimilazione ma per differenza.
“Sapete qual è stata la nostra rovina? Che non siamo mai riusciti a sostenere la concorrenza estera. L’abbiamo accelerata perché si sono commessi errori da tutt’e due le parti”.
È Lou Levov a parlare, in quel famoso pranzo del redde rationem. Sono stati commessi degli errori, dice, abbiamo commesso degli errori. Noi. Io.
In quindici anni di interviste, rarissimamente mi è capitato di sentire un imprenditore veneto ammettere: si sono commessi degli errori. Li abbiamo commessi. Li ho commessi. Quando le cose andavano male (e tendenzialmente andavano sempre male) la colpa era delle banche, delle tasse, del governo, dei cinesi, dei sindacati, della Romania dei rumeni degli austriaci taiwanesi cinesi persino di me che stavo lì a fare domande. L’autocritica non è mai stata sport diffuso fra gli imprenditori veneti – non tanto quanto il lamento almeno – e spesso mi sono chiesta se, dato che l’autocritica è premessa indispensabile per lavorare bene, ci fosse realmente in loro il desiderio di lavorare bene. “Bene” inteso come “intelligentemente”, non come “tanto”, perché “bene” non significa necessariamente “tanto”. “Bene”, anzi, è spesso il contrario di “tanto”.
Gli imprenditori veneti lavorano così: tanto. Troppo, si dice, ed è diventato un cliché – il veneto che lavora a testa bassa. Lavora per i schei, i soldi. Mio padre (eccolo che ritorna, mio padre) ha scritto ormai un decennio fa un libretto in cui espone una tesi non così peregrina: il lavoro nei veneti non origina dalla smania di guadagno, ma dal bisogno di espiazione.
“Dio stesso in persona aveva definito l’etica cattolica del lavoro. Al momento di cacciare Adamo dal paradiso terrestre era stato esplicito: “Lavorerai col sudore della tua fronte”.
Ecco il marchio indelebile dell’etica cattolica, stampigliato col fuoco delle parole sacre e infallibili della Bibbia sulle carni del lavoratore. Un’etica che ha forgiato nei secoli schiere di contadini mansueti, di emigranti disponibili a ogni umiliazione, di truppe obbedienti fino al massacro nella guerra in trincea, di masse operaie laboriose, devote e sottopagate.
Se il lavoro era una punizione aveva senso lamentarsi perché le condizioni erano troppo dure? Se il lavoro era sacrificio era legittimo chiedere il rispetto di un orario?
Il Padrone, in quanto rappresentante di Dio, era un suo strumento per espiare la colpa originale. Per il lavoratore veneto cresciuto nell’Etica cattolica il salario era un dono. Non un diritto.
[…]
Il primo condannato a lavorare come un dannato era il Padrone. In qualche misura l’influenza di questa Etica del Sacrificio è durata fino ad oggi. Almeno nelle generazioni dei più anziani.”
Si può ben vedere che non c’è, qui, alcuna traccia del Sogno: gli imprenditori veneti non sono fattori di sogni, e neppure fattori di soldi. I soldi altro non sono che la conferma – tangibile ed esteriore – della fatica, testimonianze esibite di quest’etica del sacrificio. Prova della colpa e del riscatto dalla colpa. Si potrebbe obiettare, tuttavia, che una visione tanto informata dal cattolicesimo appare oggi demodè. Dei tre grandi discorsi che da secoli governano nell’uomo il suo complicato rapporto fra il pensare e il credere – scienza, filosofia e religione – la religione è colei che dal Novecento è uscita con le ossa più ammaccate. Oggi essere cattolici – così come essere buddhisti, atei o agnostici – è una scelta individuale, per lo più spirituale, e che ha implicazioni sul piano etico e solo conseguentemente anche pratiche. Nell’Ottocento, nel Veneto assoggettato agli Asburgo, l’essere cattolici era prescrittivo per ogni cittadino di Sua Maestà l’Apostolico Imperatore. Il ruolo della fede era in prima istanza politico, dunque esterno, secondariamente morale (di lì si desumeva il codice di condotta di ogni cristiano, essendo il significato di “cristiano” coincidente con quello di “essere umano” in senso lato) e conseguentemente spirituale. Andare a messa la domenica era un obbligo di legge e nessun locale pubblico poteva restare aperto nei giorni festivi. Ma era anche un obbligo morale e la sua trasgressione veniva sentita come lacerazione dal valore infinito, perché infinita era la perdita che ne derivava per il peccatore: trovarsi in peccato mortale, perciò nell’impossibilità di salvarsi.
Nelle campagne, la figura di riferimento era quella del parroco. Il parroco, ben lungi dall’essere puro e semplice pastore delle anime a lui affidate, assommava in sé una quantità di funzioni e cariche pubbliche: aveva l’incarico di sorvegliare i pii istituti; di vigilare sulle scuole elementari e sui maestri (fungeva da direttore didattico, in buona sostanza); di supervigilare sulla coscrizione militare fornendo alle autorità competenti i dati battesimali. Il parroco sapeva dalle nascite e delle morti, dei matrimoni e dei trasferimenti ed era anche un discreto ufficio di collocamento: quando si perdeva il lavoro, per prima cosa si andava dal parroco.
Ma, appunto, queste sono usanze dei tempi andati.
Eppure Rapaille ripete spesso che i Codici Culturali sono molto refrattari al cambiamento. Sedimentano in secoli e non è così semplice disfarsene, sciacquare i panni del nostro inconscio nell’Arno del progresso. Il cuore e la testa dell’uomo non cambiano così rapidamente: con buona pace dell’impermanenza dei nostri post e selfie e commenti ed emoticon e like, che ogni giorno, ogni minuto, entrano nel sistema circolatorio di questo soggetto collettivo che è Internet dotati di un’emivita al massimo di ventiquattr’ore. Così come il Sogno americano ancora persiste nell’essere riverbero di quell’antico Sogno che fu dei Padri pellegrini, così il Veneto – che ne abbia contezza oppure no – deve fare i conti con un vuoto: quello creatosi con la scomparsa della religione cattolica (riducetela anche solo a mero impianto devozionale, se così vi piace) dal centro della vita. Il Veneto è orfano del Dio potente, del Padrone, della Chiesa che regolava la vita fornendone il senso (la vita terrena è sofferenza: ma soffrendo così come ha sofferto il Cristo si accorcia la durata del Purgatorio – questo veniva insegnato ai ragazzini, a mio padre bambino, negli anni Cinquanta), così come un insieme ordinato e rassicurante di minuziosi precetti. Privato del contenitore politico che di questa Chiesa e di questa vita si faceva portavoce, il Veneto volentieri si accuccia ai piedi di chi riesce a trasmettere, urlando (il Padrone, si sa, urla), un messaggio semplice perché semplificato e soprattutto un messaggio che sa essere fortemente esclusivo: un noi in contrapposizione a un loro.
Il Sogno americano è, pur con le sue derive razziste, un messaggio tendenzialmente inclusivo: il Paese è grande e tutti possono trovare un posto dove stare: “Perché non dovrei stare dove mi piace? Perché non dovrei stare con chi mi piace? Non è tutto qui, questo paese? Io voglio stare dove mi piace e non voglio stare dove non mi piace. Non è questo che significa essere americani?”
In Veneto – nel Veneto della pancia contadina e cattolica – non c’è mai stato posto per tutti. I forestieri, i foresti, sono sempre stati temuti e guardati con sospetto. Foresti erano, nell’Ottocento, i soldati che requisivano le bestie, il fieno, il vino e i carri quando scoppiavano le guerre. Foresti erano i pastori che con le loro greggi scendevano a svernare in pianura e sventravano i raccolti. Foresti erano i girovaghi, i ladri, le puttane. Foresti erano i cittadini, quelli che maneggiavano le carte e il potere: una ragazza che andasse a servire in città, già era guardata con sospetto al suo ritorno. Se poi tornava incinta, era detta troia e condannata a morte sociale. Non c’erano ancora i cinesi, gli albanesi, i neri e i migranti: ma c’erano un mucchio di “altri” dai quali guardarsi e ai quali abituarsi a chiudere la porta in faccia.
Rapaille afferma che il modo migliore per comprendere la visione che ogni cultura elabora di un concetto è quello di definire il suo contrario, il concetto che nell’opporvisi crea tensione. Cosa vuol dire, ad esempio, “libertà”?
Per gli americani, dice Rapaille, libertà è l’opposto di “proibizione”:
“We consider freedom an inalienable right. We have fought numerous wars to protect it, and our citizens are willing to die to mantain it. At the same time, however, our culture is very strongly inclined toward prohibition. We believe we shouldn’t drink too much, play too much, or exhibit too much wealth. While the axis never changes, where a culture stands on a particular axis varies form era to era. At variuous times in our history, for exemple, our culture has found itself in different places on the freedom-prohibition axis (leaning heavily toward prohibition in the 1920s and far in the opposite direction during the late 1960s and 1970s), but the opposing force was always evident (bootleggers in the 1920s, the Silent Majority in the latter period)”.
E, a ben vedere, l’intera narrazione di “Pastorale” si svolge lungo questo asse, sia collettivamente – la guerra dei figli contro i padri, di una generazione contro la generazione precedente – che individualmente, nella vita di Seymour Levov: il vivere impeccabilmente e però quel bacio dato alla figlia nemmeno adolescente, l’atto proibito la cui natura peccaminosa alla fin fine non è chiara – se sia essa connaturata all’atto in sé, oppure alla sua proibizione.
L’opposto di libertà è, per i francesi, “privilegio”:
“In France the archetype on the other side of the axis from freedom is not prohibition; it is privilege. Throughout their history, the French have vacillated between periods when a privileged class ruled the day and periods when this class is overthrown and the nation abolishes privileges and titles”.
Mi sono chiesta a lungo – Rapaille non ne parla – quale sia il contrario di “libertà” per noi italiani. Per un paese che riesce ad abbinare un welfare così presente, assistenziale, a una diffusa, e spesso dettata dalla cultura più che dal bisogno, presenza del lavoro nero. Un paese con una incidenza così elevata di case di proprietà e di famiglie che si accollano l’accudimento di minori e anziani e pure con un sistema sanitario che – dobbiamo riconoscerlo – è encomiabile rispetto a quello di tanti altri. Un paese capace di grandi slanci ma sovente disordinato, imprevidente, pasticcione, condannato a provvedimenti emergenziali ed estemporanei. Un paese con la situazione politica che conosciamo. Ipotizzo (non mi arrischio a concludere) che l’asse, la tensione, sia per l’Italia questa: fra “libertà” e “Stato”.