Perché scrivere può aiutarvi nel lavoro (specialmente se non siete scrittori)
Per molti anni ho lavorato con i creativi.
Coordinavo un gruppo che comprendeva: progettisti, designer industriali, stilisti di abbigliamento, grafici – sia liberi professionisti che dipendenti d’azienda. Si collaborava – ognuno con le proprie specificità e competenze – a un progetto comune di analisi sulle tendenze stilistiche e di consumo. Si cercavano e realizzavano immagini (scatti, render, bozzetti, eccetera), si proponevano accostamenti colore, si costruiva anche, quando capitava, qualche prototipo. Io scrivevo i testi. Ho fatto questo dal 2000 al 2008.
In tutti quegli anni, non mi sono mai considerata una creativa. Ero quella che faceva – per lo più – un lavoro di ricerca: selezionavo, accostavo, combinavo, decontestualizzavo e ricontestualizzavo. Non ho mai avuto la vera percezione di creare qualcosa. Faccio quello che occorre a voi per fare quello che fate, dicevo, solitamente, ai creativi veri e propri. Creo qualcosa anch’io, dicevo, in un certo senso: però mi fermo un gradino prima. Oltre questo gradino esiste uno scarto, un territorio a me estraneo e io, credetemi, lì non ci posso arrivare.
Nel 2016 ho frequentato la Bottega di narrazione. Ho scritto parecchio. Non mi sono mai considerata – nell’atto di scrivere – una creativa. A dire il vero, non mi sono mai posta il problema. Semplicemente, scrivevo. In questi ormai dodici mesi ho dedicato molto, moltissimo tempo alla scrittura: tempo sottratto ad altre cose e ad altre persone e – inevitabilmente – anche al mio lavoro, a ciò che faccio per procurarmi un reddito. Non che io abbia fatto nulla di drasticamente diverso (non ho partecipato a un corso di Tecniche per la coltivazione dello zafferano, per dire), ma l’intenzione, il modo di porsi, il coinvolgimento erano e sono assai differenti. Era quello che volevo e che avevo deciso di fare; eppure, ogni tanto, mi prendevano i sensi di colpa: ecco, dovrei cercare nuovi clienti, darmi da fare per generare nuove opportunità e invece guardami, guardami qui, con questa testa zeppa di storie e non riuscire a pensare ad altro. Patteggiavo con i sensi di colpa dicendomi che, dopotutto, stavo esercitando uno strumento utile anche per il mio lavoro: è un investimento, in un certo senso, anzi: un allenamento. Come i nuotatori professionisti che si allenano, a secco, in palestra. Un poco ci (mi) credevo, un poco no.
Ieri ho partecipato a un workshop organizzato da un mio cliente. Questo cliente è un produttore di mobili: un marchio importante nel suo settore, ben strutturato, dotato di una solida cultura del progetto: un’azienda che fa, sa cosa sta facendo, si pone il problema del perché lo sta facendo. Una di quelle aziende con le quali è un piacere lavorare, in somma. Il workshop era gestito dal loro direttore creativo: un designer spagnolo, di quasi settant’anni, titolare di uno studio a Barcellona, docente universitario. Eravamo, dunque, in questa showroom: ampia, luminosa, tutta colorata di sedie e tavoli, con quell’odore leggero e buono di pelle conciata, con una bella temperatura (spesso le showroom di mobili, in inverno, sono ambienti freddissimi). Seduti – io, la coach con la quale collaboro, altri dipendenti del reparto marketing e design – ascoltavamo Alberto parlare, guardavamo Alberto srotolare le slide sullo schermo bianco. Guardavo, ascoltavo e riconoscevo cose alle quali ero abituata: certe immagini, certi ambientati di prodotto, certe comunicazioni pubblicitarie, e poi le parole-chiave, le cartelle colori… un linguaggio appreso in anni e anni che ancora, nella mia testa, era vivo e presente. Una conoscenza ben sedimentata, dunque, ma che – in questa sedimentazione – aveva conservato quella antica distanza: il capire, senza realmente comprendere.
Finché Alberto non ha detto una cosa. Ha detto, dopo aver spiegato quanto sia importante, per un designer, possedere una buona conoscenza della storia del disegno industriale, quanto sia fondamentale saper collocare il proprio lavoro all’interno di una linea temporale o di albero genealogico dove vi sono fratellanze e differenze, prestiti e distanze, ha detto, dunque, Alberto: perché quel che interessa a me, non è il minimalismo, ma la sintesi. Con il minimalismo, ha detto, si arriva al poco partendo dal poco. Con la sintesi, si arriva al poco partendo dal molto. Si tratta di un poco estremamente denso. Per ottenere questa densità, bisogna conoscere il molto: anche se, alla fine, questo molto non lo si vedrà, anche se, esteriormente, questo molto non comparirà. In quel momento, mentre sul telo bianco scorrevano immagini di sedie e tavoli – oggetti e progetti che esemplificavano, reificavano il concetto di sintesi densa o densità sintetica alla quale Alberto stava alludendo – io ho pensato. Ho pensato a ciò che per mesi, io, scrivendo, ho cercato di fare: quella mia continua percezione di limitatezza, di inadeguatezza, di fronte alle opere non ancora lette, agli autori non ancora conosciuti. È la stessa cosa, mi sono detta. Anche io, davanti a un progetto narrativo, mi propongo esattamente questo: partire dalla complessità, dall’abbondanza (e dunque ho bisogno di molte cose: non solo di pezzi della mia vita vissuta, ma anche di altri testi, di suggestioni da altre arti, del pensiero di altri autori) per arrivare – attraverso scritture riscritture e limature – a una sintesi dove (nell’intenzione, almeno) la complessità e l’abbondanza iniziali si trasformano in densità.
E lì, mi sono accorta che stavo comprendendo. Davanti a me c’era questa persona, questo designer, con molti più anni di me, con molta più esperienza di me, impegnato in un settore completamente diverso dal mio, che faceva un costante riferimento a significanti (le immagini, gli oggetti) che non sono quelli che io principalmente utilizzo, nella scrittura; eppure questa persona – al di là dei tavoli, delle sedie, dell’età, dell’esperienza, del significante– parlava una lingua che io, per la prima volta, realmente riuscivo a comprendere.
Credo che questo sia stato percepito. Credo che questo abbia fatto una differenza. O forse non l’ha fatta per il cliente – magari sarebbe andata ugualmente bene, come già in passato – ma per me, il non sentire più quel gradino, quello scarto, quel territorio sconosciuto, è stato emozionante e fondamentale (emozionante nel suo essere fondamentale). Come quando – imparando ad andare in bicicletta – finalmente interiorizzi il movimento, le tue gambe si muovono da sole, senza intenzione, senza consapevolezza e tu – semplicemente – vai, pedali, guardi il paesaggio, ti godi tutto il resto.
Spesso sento l’ambizione – in chi, come me, scrive ma non ha ancora pubblicato nulla – di acquisire lo status di scrittore. Quasi fosse una sorta di patentino, di etichetta, che sancisce un valore. Non mi è mai importato granché, di questo. Però adesso penso che sì, un certo status sono contenta – pubblicazione o non pubblicazione – di averlo acquisito: la condizione (utilizzo dunque il significato originario, latino, del termine; non quello inglese) di chi riesce a porsi in relazione non con coloro che semplicemente creano (anche quando cucino il mio terrificante risotto con la pentola a pressione sto, tutto sommato, creando qualcosa), ma con coloro che, preliminarmente contestualmente e secondariamente all’atto di creare, si pongono problemi, domande, cercano interpretazioni. È questo lo status che a me interessa.
La differenza, per me, l’ha fatta il mio anno di non-così-colpevole ozio (l’otium contrapposto al negotium, dunque, sempre scomodando gli antenati): un anno teoricamente sottratto alla mia attività professionale, alle scelte di buonsenso. E allora mi vien da dire che – nel lavoro (e forse anche nella vita) – non sempre sappiamo cosa ci potrà realmente servire, cosa ci potrà, alla fine, recare del bene. A volte, si tratta di accettare una scommessa, di correre un rischio: e vedere poi come va.