Le vie infinite del product placement
Come costruire una relazione efficace tra il nostro marchio e il consumatore? Ce lo spiega il signor Wilson (e non c’entrano né Poe, né Auster).
Il mese di novembre scorso, ho iniziato a frequentare la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi e Gabriele Dadati. Ora: non sono amante dei panegirici, ma devo dire che, in venti, onoratissimi anni di docenza fruita ed erogata, di cose lette e scritte, di conferenze agite e – spesso penosamente – subìte, un’offerta formativa di tale qualità non mi era mai capitato d’incontrarla. Detto questo: che si fa alla Bottega di narrazione? Beh, s’impara a narrare. E poiché narrare, con scopi e modalità diverse, c’entra parecchio anche col lavoro che faccio, mi succede spesso di utilizzare ciò che apprendo a lezione per ragionamenti che riguardano il marketing, la comunicazione pubblicitaria, lo storytelling.
Per esempio: la descrizione dei personaggi. C’è chi la fa in un modo, chi la fa in un altro. Chi descrive minuziosamente ogni movimento, chi accenna soltanto, chi si sofferma con pignoleria sul ricciolo naturale color caffelatte. Ognuno nota ciò che per temperamento, inclinazione e vissuto, è portato a notare. Io, talvolta, integro le mie descrizioni con qualche marchio. Lo faccio perché so benissimo che, pur se la cosa non verrà notata da tutti, far indossare a un personaggio una camicia di Jil Sander piuttosto che una di Roberto Cavalli, dà al lettore informazioni molto, molto diverse (per inciso: nessuno dei personaggi del progetto a cui sto lavorando indossano Jil Sander o Roberto Cavalli). Che ci piaccia o no, i prodotti e i marchi che acquistiamo contribuiscono a definire ciò che siamo (hai presente I shop therefore I am di Barbara Kruger)?
Insisto su questo punto perché lo ritengo importante (e perché, detta così, la frase suona un po’ come un luogo comune). E dunque: ogni mattina, noi ci svegliamo in un mondo nel quale non siamo ben sicuri di come vivere. Quest’incertezza abbraccia sia le piccole decisioni quotidiane (cosa mangio a pranzo: andrà bene il panino col prosciutto ora che gli insaccati son diventati cancerogeni? cosa indosso per andare al lavoro: la barba lunga mi fa uomo saggio o fashionista hipster?); sia le grandi questioni esistenziali (e qui non faccio esempi perché ognuno ha le proprie). Spesso, però, sono proprio le piccole decisioni a essere considerate più importanti: a differenza della grandi questioni esistenziali, non possono essere differite e richiedono una risposta immediata (in un modo o nell’altro, dovrò mangiare, dovrò vestirmi, dovrò andare al lavoro). Una volta, ai piccoli dilemmi fornivano una risposta le consuetudini elaborate da una società chiusa, rituale, basata su ruoli familiari e sociali rigidamente codificati. Oggi, invece, ogni individuo ha piena libertà di scegliere gli strumenti più adatti alla definizione del proprio sé e del proprio modo di vivere. Cosa fanno i marchi? Funzionano un po’ come dei pacchetti di significati preconfezionati: narrazioni che, introdotte nella nostra vita, rispecchiano non tanto ciò che sappiamo di essere, ma ciò che riteniamo di voler essere.
Mi viene in mente Copito de Nieve, lo scimmione albino che Palomar vede allo zoo: con le sue braccia-zampe stringe contro il petto un copertone di pneumatico d’auto. Perché lo fa? si domanda Palomar. «Per Copito de Nieve il contatto col pneumatico sembra essere qualcosa d’affettivo, di possessivo e in qualche modo simbolico. Di lì gli si può aprire uno spiraglio verso quella che per l’uomo è la ricerca di una via d’uscita dallo sgomento di vivere: l’investire se stesso nelle cose, il riconoscersi nei segni, il trasformare il mondo in un insieme di simboli.» (sì: per capire il consumatore, che altro non è se non una persona che consuma, la narrativa è a volte più utile di tanti manuali di marketing).
Nel marketing tradizionale, quello affermatosi dagli anni Cinquanta in poi (ma spesso utilizzato ancora oggi), si applicavano ai prodotti dei significati sociali preesistenti (ti ricordi «l’uomo che non deve chiedere mai» del dopobarba Denim?). Il percorso funzionava (funziona) press’a poco così: so chi sono e qual è il mio posto nella vita > il marchio sfrutta associazioni già codificate (gli stereotipi sulla virilità, in questo caso) > questo è il marchio adatto a me e al mio ruolo > acquisto questo marchio. Nel nuovo marketing, invece, si opera una vera e propria sostituzione: non so bene chi sono e qual è il mio posto nella vita > questo marchio mi offre un modello coerente, credibile, interessante > mi aiuta a definire la mia identità > acquisto questo marchio. Tu dirai: ma io non sono di quelli che definiscono la propria identità attraverso un dopobarba o una maglietta! Certo. Ma magari lo fai attraverso i libri, le vacanze, i concerti. Si tratta sempre di beni che vengono progettati, prodotti, realizzati (più o meno) in serie, promossi con una strategia di comunicazione, venduti, acquistati. Tant’è che, anziché parlare di beni o merci, io preferisco parlare di ESP: esperienze-servizi-prodotti. E ogni ESP altro non è che uno dei numerosi punti di contatto fra un marchio e il suo consumatore.
I marchi che riescono a offrirsi come modelli coerenti, credibili, interessanti lo fanno in due modi: 1) creando narrazioni; 2) inserendosi in narrazioni create da altri. In entrambi i casi, resta valido l’approccio strategico preliminare (analisi dell’ambiente competitivo, definizione del posizionamento, analisi del target, definizione della personalità di marca, eccetera).
Inserirsi in narrazioni create da altri lo si può fare, per esempio, con il product placement. Di product placement cinematografico ho già parlato qui, dicendo che si tratta di una tecnica vecchia quanto il cinema (citavo il sapone Lever e i fratelli Lumière). Quando il product placement veniva fatto con discrezione e assennatezza (non alla Driven, per intenderci: 103 marchi in 117 minuti di pellicola) i risultati non si facevano attendere: le caramelle che il piccolo Eliott semina per terra nel film ET sono le Hershey’s Reese. Spielberg si rivolse a quest’azienda dopo un rifiuto da parte di M&Ms. Il risultato? Vendite triplicate a una settimana dall’uscita nelle sale. Grazie a Tom Cruise, la Ray-Ban riuscì a rilanciare un marchio che da anni era oppresso da vendite pressoché piatte.
Possiamo utilizzare il product placement in modi molto diversi (e con impegni economici altrettanto diversi). Il modo più semplice (e meno efficace) è quello di inserire il prodotto, e il relativo marchio, nella scena: si chiama screen placement e aiuta, si dice, a “fare awareness”. Ovviamente, più inquadrature ci sono, più cresce la probabilità che il prodotto/marchio venga registrato e ricordato da chi sta guardando. E ovviamente, più marchi/prodotti sono presenti sulla scena, minori sono le possibilità che il nostro venga notato e memorizzato.
Con lo script placement il marchio/prodotto viene citato esplicitamente da uno o più personaggi, contribuendo a definire la loro identità. È quello che succede, ad esempio, nel film I robot con Will Smith (il marchio è Converse).
La forma di product placement più efficace è però quella in cui il prodotto/marchio entra a far parte della trama in maniera organica (si chiama infatti: plot placement). Uno degli esempi più riusciti è, secondo me, quello di Cast Away, film di Robert Zemeckis, con Tom Hanks, uscito nel 2000. Ricordo che, all’epoca, andai a vederlo al cinema e mi piacque abbastanza. La cosa che mi piacque di più fu il rapporto di amicizia fra Chuck Noland, dirigente operativo della FedEx (ecco il primo plot placement) che fa naufragio su un’isola deserta, e il suo amico Wilson. Wilson è l’unica figura a cui Chuck può appoggiarsi durante i lunghi mesi d’isolamento, l’unica con cui può parlare per non perdere il senno, l’unica che lo aiuta a non lasciarsi prendere dalla disperazione. Ebbene: Wilson è un pallone. Un pallone che, finito fra i detriti dell’aereo caduto in mare, viene recuperato da Chuck e umanizzato (è un pallone in pelle bianca: Chuck vi dipinge sopra un volto con l’unico pigmento di cui dispone: il proprio sangue). Passano quattro anni, anni in cui Chuck, vinto dall’insostenibilità della propria condizione, ha tentato pure di suicidarsi. Un giorno, le onde depositano sulla spiaggia un detrito di vetroresina: due pareti ad angolo appartenute a un bagno chimico. Chuck decide di usarle per costruire una zattera e fuggire dall’isola, in cerca di soccorsi. Ma durante la navigazione scoppia una violenta tempesta e il suo amico Wilson cade in mare. E succede questo:
Non è facile raggiungere un simile livello di integrazione fra narrazione cinematografica e prodotto/marchio (e non tutti hanno budget tanto consistenti). Però può essere un buon esempio da tenere a mente anche per esperimenti più modesti, nonché per le narrazioni che, come azienda, costruiamo in autonomia. Quanto più riusciremo a umanizzare il nostro marchio (il sangue è opzionale, beninteso), tanto più il nostro consumatore sentirà il desiderio di costruire con lui una relazione e introdurlo nella propria vita.
(Alla Bottega di narrazione si è parlato, per la verità, di altri due Wilson: il William Wilson dell’omonimo racconto di Edgar Allan Poe; e il William Wilson alter ego di Quinn, protagonista della Città di vetro di Paul Auster. Ma noi, per quello di cui si tratta qui, limitiamoci più modestamente al pallone.)
E quest’immagine che c’entra? dirai tu. Si tratta di un affresco della cappella dei Magi, a Firenze (si trova a palazzo Medici Riccardi), commissionato dai Medici a Benozzo Gozzoli, nel 1459. L’affresco rappresenta, formalmente, la Cavalcata dei Magi, ma in realtà vuole immortalare un corteo di politici e personalità illustri che, nell’aprile del 1459, giunse e Firenze, dando lustro alla città. Non solo: a Benozzo Gozzoli fu raccomandato di prestare particolare cura al disegno dei tessuti (oggi diremmo: nel brief che ricevette dal committente, la rappresentazione meticolosa del prodotto era un mandatory element). I Medici possedevano opifici tessili dove realizzavano stoffe apprezzate ed esportate in tutta Europa e quel ciclo di affreschi doveva essere sia un invito alla preghiera, sia un catalogo commerciale da srotolare sotto gli occhi degli ospiti (ed ecco il product placement, ante litteram).