Valentina Durante – Copy & Story | Progettare con la letteratura: una proposta (forse indecente)
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Progettare con la letteratura: una proposta (forse indecente)

 

A gennaio terrò un corso.

Si tratta di un modulo di trenta ore all’interno del biennio di “Tecnico Superiore per lo Sportsystem”. Ho fatto docenza lì anche due anni fa. Ricordo che, alla fine dei quattro mesi (avevo appena terminato gli esami: dunque compilato, firmato, una quantità spropositata di carte fogli documenti moduli pagine di registro), mi ero detta: questa è l’ultima volta. Sì, l’ultima volta che insegno.

Questo io me lo ripeto sempre, dal 1996 (anno in cui tenni il mio primo corso, in Confartigianato di Asolo e Montebelluna). E invece. Non è che fare docenza non mi piaccia, tutt’altro: è la quantità di lavoro che mi scoraggia (e che rende ogni docenza francamente antieconomica). Perché io, nonostante mi riprometta ogni volta di metter giudizio, di fare le cose col buon senso del professionista che si fa i conti in tasca, continuamente, detesto utilizzare materiale di repertorio. E così, anche sole trenta ore d’aula finiscono per trasformarsi in una quantità impressionante di: nuove slide, nuovi contenuti video, nuove idee per esercitazioni, nuove cose, nuovo tutto. Ma se non faccio così mi annoio. E se mi annoio io – mi dico – figuriamoci chi mi sta ad ascoltare.

E dunque: anche questa volta ho detto sì. E anche questa volta rivolterò il programma come un calzino. Il “modulo” che mi è stato affidato s’intitola: “Storia dello sportsystem”. Ho sempre approcciato la storia dello sportsystem secondo un’ottica multidisciplinare (ci ho pure scritto un poco agevole saggio, molti anni fa): parlo non solo di storia dello sport e del prodotto sportivo (abbigliamento, calzatura e attrezzo), ma anche di storia della moda, del disegno industriale, della comunicazione pubblicitaria, delle arti visive. E soprattutto parlo di sottoculture urbane.

 

Clinton Manganelli

Giorgio Manganelli dopo una faticosa giornata in RAI.

 

Se noi vestiamo così come vestiamo, un buon merito (o demerito, a seconda di come la si vuol vedere) va alle tribù di stile (per farsi un’idea, fondamentali sono i testi scritti da Ted Polhemus). Potremmo dire che, se la nostra lingua è un cimitero di metafore, il nostro abbigliamento è un cimitero di elementi stilistici mutuati dalle tribù di stile. Oggi noi diciamo “le gambe del tavolo”: ed è una espressione acquisita, che ha perso la sua forza innovativa di metafora. Allo stesso modo, oggi noi indossiamo una t-shirt con una qualche grafica o scritta stampata sopra e lo facciamo senza pensare che la t-shirt, nata come indumento intimo (doveva assorbire gli umori del corpo), venne personalizzata con grafiche o scritte e indossata “a vista”, per la prima volta, dai militari statunitensi, durante la Seconda guerra mondiale. Venne poi introdotta in un contesto civile, nei primi anni Cinquanta, dagli esponenti di una sottocultura: quella dei Biker, i reduci della guerra che – smessa la divisa alla fine del conflitto – non erano riusciti a integrarsi proficuamente nella nuova società americana (la happy family dal vorace consumo di elettrodomestici bianchi), diventando volutamente dei reietti, degli esiliati. Per farvi un’idea potete guardare (o riguardare) The Wild One, di László Benedek: un film che delinea due prototipi di Biker: il Biker “pulito e minimale”, al quale s’ispireranno i Coffee Bar Boys britannici (Jhonny, interpretato da Marlon Brando); e il Biker “sporco e cattivo”, che sarà un modello per gli Hells Angels statunitensi (Chino, interpretato da Lee Marvin).

La t-shirt con le stampe, dunque. Ma anche il giubbotto nero di pelle (il perfecto). Il pantaloni chinos. Il piercing. Le dreadlock. Il caftano. Gli anfibi. I jeans. La tuta mimetica. I pantaloni con il cavallo basso. Sono tutti capi di abbigliamento facenti parte della divisa di una (o più) tribù di stile; non erano moda, ma costume; non erano transeunti, ma permanenti (non è mai esistito un “giubbotto Hells Angels dell’anno”). Spesso richiedevano, per poter essere indossati, che il candidato superasse un certo rituale di iniziazione. Di questi capi, il mondo della moda (stilisti, marchi di abbigliamento, eccetera) si impadronì, progressivamente, a partire dagli anni Sessanta. Per farlo, dovette operare una de-contestualizzazione, dunque una ri-semantizzazione. Per usare una metafora di cui si servì – per faccende ben più alte – Ferdinand de Saussure: se, durante una partita a scacchi, viene perso un pezzo, qualunque altro pezzo può sostituirlo degnamente, purché vi sia accordo, riconoscimento e memoria da parte di entrambi i giocatori. È dunque la funzione del pezzo all’interno di un sistema a conferirgli un dato valore. Allo stesso modo, il perfecto aveva, all’interno della tribù dei Biker, un determinato valore (conservare un legame con un certo di stile di vita e una certa mentalità acquisita nell’esercito, durante la guerra); quando del perfecto si appropriò la moda (Yves Saint Laurent lo portò in passerella, con grande scandalo, negli anni Sessanta), il sistema di riferimento cambiò, dunque ne risultò profondamente modificato anche il valore. Se il perfecto conservava, all’inizio, una certa aura sovversiva legata alla sua origine, oggi è diventato consuetudine: nessuno si sente un sovversivo indossando un giubbotto di pelle nera, così come nessuno si sente particolarmente innovativo quando dice “le gambe del tavolo”.

 

Gozzano Hipster

Guido Gozzano mentre fissa nell’albo con tanta tristezza.

 

Chi lavora in un’azienda del Sistema Moda e si occupa di progettazione, non farebbe male ad approfondire la storia delle tribù di stile. Non è indispensabile, intendiamoci: si può benissimo disegnare un paio di sneaker ignorando chi siano Tony Alva e gli Z-Boys. Così come si può scrivere un romanzo senza aver mai letto Manzoni o Joyce o Proust. Ma conoscere queste cose, può fare la differenza: perché dà modo di utilizzare certi elementi con maggiore consapevolezza. Ossia: andrà anche bene lasciarsi ispirare dai Punk che si vedono per strada (anzi, ormai: nei photoblog) dopo averli guardati con occhio innocente (non viziato, cioè, da conoscenze pregresse). Ma sapere che: quell’abbigliamento lì è stato codificato (non: inventato) a metà degli anni Settanta, a Londra, da due signori chiamati Vivienne Westwood e Malcolm Mc Laren. Che questi due signori si sono ispirati a certo Punk statunitense, ma specialmente alla sottocultura Fetish (il primo negozio della Westwood si chiamava “Sex” e vendeva abbigliamento sadomaso) e ai Teddy Boys (Mc Laren fu un Teddy Boy, prima di approdare al Punk). Che la grafica e certo atteggiamento promosso da quei due signori attingeva al Situazionismo di Debord, dunque al Lettrismo e al Dada. Ecco: sapere tutte queste cose permette di avere qualche risorsa in più.

Questa la lunga premessa, dunque: un corso che affronta la storia della cultura di massa del Novecento per come emerge – specialmente – dalla sua relazione con i fenomeni contro culturali; una relazione, certo, contrastata: prima oppositiva, poi assimilativa, ma sempre di arricchimento reciproco (perché la prima attinge dai secondi; e i secondi possono esistere solo perché esiste la prima). Un corso rivolto a destinatari molto eterogenei per età e provenienza (il più giovane si è appena diplomato, il più vecchio ha un anno più di me) che hanno però uno scopo comune e ben preciso: entrare nel mondo del lavoro, per la prima volta o in seguito a una riqualificazione. Un corso-poche-chiacchiere, insomma. Un corso pragmatico, operativo, un corso zero-fuffa. Ebbene io, in questo corso, per non annoiarmi (e non annoiare) ho deciso di fare un esperimento: parlerò anche di letteratura.

 

Ravers

Arthur Rimbaud (in primo piano) con gli amici del Vilains Bonshommes.

 

Ecco quel che farò: a corredo delle lezioni frontali, ho previsto un piccolo laboratorio. A ogni allievo verrà affidata una tribù di stile; un decennio (a esempio: B-Boys, anni Ottanta); e l’estratto di un testo letterario. Questo testo non sarà, il più delle volte, espressione documentaristica di quella particolare sottocultura: non utilizzerò, a esempio, nella scheda dedicata ai Punk, un estratto di “Costretti a sanguinare”. No, sarebbe troppo facile. E troppo scontato.

Per chiarire meglio questo punto, cito da un articolo, assai interessante, pubblicato su Le parole e le cose. È tratto da: La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, il nuovo saggio di Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti ed Emanuele Zinato (che ancora non ho letto: aspetto che Amazon si decida).

«Si è venuto così affermando un approccio alla letteratura di tipo pluridimensionale e intersemiotico, fatto di molte e imprevedibili contaminazioni, in cui il testo letterario costituisce soltanto una delle tante manifestazioni discorsive che caratterizzano la cultura e la identità di una data epoca. Non si può non osservare che un tale approccio, al quale va senz’altro riconosciuto il merito di aver ampliato considerevolmente il raggio di applicazione della critica letteraria, oggi funziona soprattutto come supporto di altri metodi e saperi sempre più intenti a vedere nell’opera poetica il suo valore di documento di realtà sociali, politiche, antropologiche ecc., invece che come momento di rivelazione, prefigurazione e verità.»

Ecco: a me non interessa utilizzare il testo letterario nel suo valore di documento. Mi interessa utilizzare il testo letterario come trampolino per amplificare l’immaginario, come strumento di sfamiliarizzazione di una percezione ormai automatizzata.

Picasso scrisse: «In quel periodo dicevano che facevo i nasi storti, anche in Les Demoiselles d’Avignon, ma io dovevo fare i nasi storti, così vedevano che si trattava di nasi. Ero sicuro che poi avrebbero visto che non erano storti.»

Vorrei accostare a ogni sottocultura un testo letterario che appaia, al primo impatto, come un naso storto. Che si sviluppi sulle corde di una immaginazione compatibile piuttosto che comune, che non sia documentaristico, che fornisca una suggestione anche solo dal punto di vista formale. Hilarotragoedia di Manganelli assieme al Funk. O L’amica di nonna Speranza di Gozzano assieme agli Hipster.

Io scrivo. Scrivendo, il mio immaginario si nutre specialmente di parole. Eppure mi accorgo che le idee più fertili e fresche mi arrivano da altro: dalle arti figurative, in particolare. E dunque mi dico: perché non potrebbe funzionare alla stessa maniera anche per chi progetta un oggetto? L’immaginario di stilisti e designer industriali si nutre prioritariamente di linguaggi visivi: è normale che sia così. Ma non si corre il rischio, a volte, mi dico, e nonostante l’abbondanza di immagini (soprattutto a causa dell’abbondanza di immagini, forse), di accartocciarsi dentro una immaginazione asfittica? una immaginazione che procede con il pilota automatico? una immaginazione che non vede i nasi perché già sa che sono nasi?

E allora, mi dico, si potrebbe tentar di lavorare con le parole, partire dalle parole, stimolare uno straniamento attraverso le parole e vedere cosa succede. Utilizzare il testo scritto. Estrapolarne suoni, andature, concetti, suggestioni. Poi tradurre quei suoni, quelle andature, quei concetti, quelle suggestioni in oggetti: da presentare attraverso immagini (dunque oggetti mediati da certe inquadrature, da certi tagli, da certe esposizioni), da manipolare per nuovi bozzetti, progetti, prototipi. Si potrebbe lavorare in questo modo, mi dico. E infatti: questo è il modo in cui intendo lavorare. Non la letteratura come patina nobilitante di un corso dall’impronta e dagli scopi dichiaratamente industriali, non un “Paulo maiora canamus” appiccicato in modo pretestuoso. La letteratura come un compasso, un trincetto per tagliare il pellame, una tavoletta per il CAD. Una forzatura irrispettosa? Magari anche sì. Però, non insegnando io letteratura, credo di avere la libertà di potermelo permettere.

Voleranno le sedie, alla fine? E chi lo sa. Non resta che provare.

 

malice mizer

Pierre Choderlos de Laclos con la moglie Marie-Soulange Duperré e due amici: tutti in abito da pomeriggio.

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