Valentina Durante – Copy & Story | Questa non è una recensione di Fiction 2.0
Ma il tentativo di spiegare perché Giulio Mozzi “è il più bravo” e che cosa significa “essere il più bravo”.
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Giulio Mozzi, Fiction 2.0

A fine giugno è uscito “Fiction 2.0”, raccolta di racconti di Giulio Mozzi (Laurana Editore),  edizione “diminuita e aumentata” del “Fiction” pubblicato da Einaudi nel 2001. Ci sono già state alcune, laudative, recensioni. Ci sono state anche parecchie reazioni (commenti, condivisioni e così via) da parte di chi “Fiction 2.0” lo ha letto. In alcuni casi queste reazioni sono state accompagnate da una affermazione piuttosto impegnativa: “Giulio Mozzi è il più bravo”. La mia nota non è una recensione di “Fiction 2.0” (mi limiterò a dire, alla fine, perché consiglio di leggerlo), ma un tentativo di spiegare, in modo non emotivo ma il più possibile razionale, perché questa affermazione mi trova d’accordo e che cosa significa, secondo me, per uno scrittore, “essere il più bravo”.

Tre premesse.

La prima. Dire a qualcuno: “sei il più bravo” è difficile. Si può essere accusati di piaggeria, oppure di scarsa obiettività (per via dell’affetto o della gratitudine). Sentirsi dire: “sei il più bravo” è altrettanto difficile. Si può non essere d’accordo, o esserlo ma non esserne completamente convinti, o ancora essere d’accordo ma temere un’accusa di presunzione. Sono sicura che non vi sia alcuna piaggeria in tutti i “sei il più bravo” che mi è capitato di leggere, e che l’affetto, la gratitudine – pur essendovi – abbiamo influito minimamente. Sono parimenti convinta che quando Giulio Mozzi risponde: “Non è vero” (eventualmente motivando con: “Il più bravo è Michele Mari”) non si tratti di falsa modestia (Mozzi neppure si definisce umile, semmai “realistico”), ma di genuina convinzione: del resto, è molto difficile “vedersi” dal di fuori.

La seconda. Qui mi limiterò a parlare del Giulio Mozzi scrittore (si intenda: autore di testi scritti che abbiano una qualche diffusione, più o meno estesa). Non dunque solo del Giulio Mozzi narratore e in nessun caso del Giulio Mozzi docente o talent scout o eccetera eccetera: mischiare piani diversi non aggiunge complessità alla riflessione, semmai complicazioni.

La terza. Qui parlerò del Giulio Mozzi scrittore nel suo complesso, non delle singole opere. Anche perché mettere a confronto, stilando una graduatoria, la bellezza di singole opere di autori diversi mi sembra impresa improba e forse impossibile (in base a quali criteri? formali? contenutistici? di innovazione? non se ne esce proprio).

Terminate le premesse, andiamo.

Le prime due caratteristiche – le più evidenti, se non altro – che qualificano la produzione di Mozzi scrittore sono la quantità e la varietà. La numerosità dei testi – non solo quelli pubblicati con casa editrice, dotati di codice isbn e prezzo di vendita, ma anche (soprattutto) quelli che la Rete ospita, dal blog Vibrisse alle pagine Facebook – è impressionante, per un solo scrittore (aggiungeteci che lui, Giulio Mozzi, si qualifica pure come “ex scrittore”). A essere ancora più impressionante è l’eterogeneità: di forme (prosa e poesia, narrativa e saggistica, pezzi di stampo giornalistico e “decaloghi” non più decaloghi…); di narratori (c’è Giulio Mozzi, ma ci sono anche i suoi personaggi finzionali); di registri.

Ora, il rischio di perdersi, in questa vastità di cose, è grande. E no, non che si perda il lettore, ma che sia Giulio Mozzi stesso a perdersi, ossia che la sua voce – e dai e dai – si sfilacci, che risulti irriconoscibile. Andrea Cortellessa ha affermato in un suo recente articolo che “l’unico scrittore che Giulio Mozzi ha deciso di nascondere è se stesso”. E si sarà pure nascosto come scrittore (limitatamente a opere narrative nuove), ma non certo come autore: perché la voce di Mozzi – quale che sia la forma, quale che sia il narratore o il registro scelti – la si riconosce subito, sempre. Come di un artista – che faccia scultura o pittura o che componga opere musicali – si riconosce la “mano” (o la “lingua” o, per usare un termine consuetudinario che però a me piace poco, la “poetica”). Questo non è per nulla scontato. Non so a voi, ma a me càpita spesso di leggere un testo argomentativo, un’intervista, di un narratore che conosco e del quale ho magari apprezzato le opere, e di pensare: sì, vabbé, però: questo qui non è lui, non è lei. Dov’è lui? Dov’è lei?

Per capire come e perché Giulio Mozzi nelle sue opere non si perda mai – che sia un racconto o una recensione più o meno seria o un sonetto o un post su Facebook – è sufficiente un semplice gioco. Un esercizio, suggerito da un grande scrittore e maestro di scrittura: Giuseppe Pontiggia. Pontiggia diceva press’a poco così: per capire la grandezza di un grande scrittore dovete azzardare tagli e sostituzioni. Prendete un capoverso e tagliate delle parti o ricombinatele o cambiate delle parole – scambiate avverbi e aggettivi, sperimentate con i sinonimi. E vedrete che il testo non regge più, che pur funzionando (perché sintatticamente corretto, o perché trasmette comunque lo stesso messaggio) non funziona. Il grande scrittore lo si riconosce da questo: dalla sua capacità di trovare sempre la migliore alternativa possibile. E io aggiungo: il grande scrittore lo si riconosce anche dalla persistenza della voce, dall’aver scelto l’unica via formale che lo renda presente pur non essendo mai intrusivo, ma sempre al servizio del suo narratore. E allora provateci (io, per imparare, perché dai grandi scrittori si impara, ci ho provato): pigliate un testo di Mozzi – qualunque testo – e modificatelo qua e là. E vedrete che – pur conservando il senso – il testo non tiene più, non è più quello di prima, perché Mozzi è sparito.

Ora: già ottenere un risultato simile – una propria voce, stabile e coerente – con le sole opere narrative è impegnativo. Riuscire a ottenerlo con una varietà di generi e di registri fino alla scrittura più minuta e quotidiana, non è mica una cosa da poco. Ci sono altri scrittori che, almeno attualmente, riescono a farlo così come lo fa Mozzi? che sono sempre così presenti a loro stessi con una mole altrettanto vasta ed eterogenea di scrittura? che non hanno mai cadute di stile (o che, anche quando sembrano averne – anche Omero, dopo tutto, ogni tanto si faceva qualche pennichella – riescono comunque a mantenere un proprio stile)? Io, sinceramente, penso di no.

E qual è la sorgente di questa coesione? Da dove origina questa voce onnipresente, che si rintraccia in tutti i punti di contatto fra Mozzi e il suo pubblico? Non è difficile: Giulio Mozzi lo ripete sempre, peraltro; è che non gli credono, pensano alla boutade, alla cosa sminuente o spiritosa che in realtà cela dell’altro (altro che Mozzi non vuole svelare). E invece è proprio quello: la pedanteria.

Un pedante è uno che non butta via, che non lascia mai andare. Nella meticolosità è sempre presente: non esistono gerarchie – il testo che vale di più e al quale destinare più cura e quello che vale meno – ma tutto è ugualmente degno.

Dunque, secondo me, stando a questi criteri, Giulio Mozzi è il più bravo. Il fatto che Giulio Mozzi abbia scritto alcune opere considerate da (tanti? alcuni?) scrittori come fondamentali per la loro scrittura integra questo giudizio ma non lo esaurisce. Il fatto che Giulio Mozzi sia stato e sia un maestro, un talent scout, un consigliere, un sostegno per altrettanti scrittori non incide su questo giudizio. Il fatto che Giulio Mozzi con questo giudizio non sia d’accordo non cambia il giudizio. Perché sì: accettare di essere il più bravo non è per niente facile. La cosa può non piacere o può infastidire o può mettere in ansia o può dare l’idea che porti in un qualche modo sfiga o può annoiare o può un mucchio di altre cose che sono diverse per ognuno. Però.

L’anno scorso, all’incirca in questo periodo, Giulio Mozzi ha pubblicato su “Vibrisse” un lungo post dal titolo: “Riflessione gigantesca su un testo futile (ovvero: le “regole interne” del testo e la “volontà di dire” dell’autore)”. In chiusura, Mozzi affermava che, rispetto alle proprie opere, “l’autore non può sottrarsi alla sua responsabilità; né può negare il senso prodotto.” Io trovo che questo sia molto vero. Ma credo vi sia dell’altro: un autore non può sottrarsi alla bellezza di quanto ha prodotto, anche questa è una responsabilità. E se questa bellezza è diffusa, se la si ritrova in modo così presente, coeso ed esteso in tutte le sue opere, e se questo in altri autori avviene meno spesso o in maniera più imperfetta o incongrua, ebbene: un autore deve accettare anche la responsabilità di essere il migliore.

A Giulio Mozzi il fatto di essere il più bravo può non piacere: ma con questa cosa, voglia o non voglia, deve comunque farci i conti.

(e: occorre davvero dire, a questo punto, perché io consigli di leggere “Fiction 2.0”?)

[La foto di copertina è da “Fiction 2.0”]

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