Storytelling, bugie e videotape
Perché è importante dire la verità, ma non tutta la verità
Sesso, bugie e videotape è un film del 1989, Palma d’Oro a Cannes. Non ti parlerò di quel film (di cui peraltro ricordo solo il titolo e nulla della trama) e neppure di sesso (e mi scuso con chi è arrivato su questo post digitando proprio quella keyword lì). Ti parlerò piuttosto di bugie, di verità e di tutte le cose che stanno nel mezzo. La domanda da cui voglio partire (e a cui voglio arrivare, magari con una risposta) è: quanto dobbiamo essere onesti nel raccontare la storia della nostra azienda o del nostro prodotto?
Nella Storia immortale di Karen Blixen (qui puoi guardare la versione cinematografica di Orson Wells) Elishama spiega al cinico e disincantato signor Clay il valore di una storia inventata: «La storia che lei, signor Clay, crede sia accaduta al marinaio della sua nave, non è mai accaduta a nessuno. Tutti i marinai la conoscono. Tutti i marinai la raccontano, e ognuno di loro, siccome vorrebbe che fosse accaduta a lui stesso, la racconta come se così fosse. Ma non è così. Tutti i marinai, quando ascoltano questa storia, amano che sia loro raccontata in quel modo, e pretendono che sia loro raccontata in quel modo.»
In inglese, spiega Andrea Fontana, c’è una differenza tra history (storia, la cronologia di una serie di eventi accaduti in uno spazio-tempo definito) e story (racconto, la rappresentazione percettiva della realtà, rappresentazione che può essere veicolata, certo, attraverso le parole, ma anche attraverso immagini, suoni, odori). Storytelling deriva da story, non da history, da racconto non da storia: è dunque una rappresentazione della realtà, più che la sua fedele trasposizione. E quindi, ci verrebbe da dire, nel raccontare la storia della nostra azienda o del nostro prodotto possiamo mentire, giusto?
Calma.
Ritorniamo al concetto di story. Ormai sappiamo (perché negli ultimi anni l’abbiamo sentito ripetere e ripetere e ripetere ancora) che è la parte intangibile dei nostri prodotti a spingere i consumatori a interessarsi a loro (e, in definitiva, a tirar fuori la carta di credito per comprarli). «Great brands are the ones that tell the best stories» dice Jason Fried, co-fondatore di Basecamp. «Sure, good products and service matter, but stories are what connect people with companies.» Forse la cosa non ti convince. Forse pensi che tutto questo gran parlare di intangibile sia, per l’appunto, solo un gran parlare. Perché tutto ciò che è intangibile, in fin dei conti, mica lo possiamo misurare, non possiamo cioè valutare il ruolo preciso giocato dalle nostre storie nella vendita dei nostri prodotti.
E invece sì. Ci sono riusciti Rob Walker e Joshua Glenn, con il loro esperimento Significant Objects. Cos’hanno fatto Rob e Joshua? Semplice: hanno messo all’asta, su Ebay, circa duecento oggetti per un valore medio reale di 1,25 dollari a testa (quindi un totale di circa 250 dollari). A ogni oggetto è stato abbinato un racconto, che aveva come protagonista o comprimario proprio quell’oggetto lì. L’incasso finale complessivo è stato di 8.000 dollari, con un guadagno di 7.750 dollari. Quei 7.750 dollari di differenza li hanno fatti le storie. (Un esperimento non uguale ma simile è quello lanciato da Vib-Spazio Vibrissae, un concept store inaugurato qualche mese fa a Verona: si tratta di un blog, Le storie dell’armadio, a cui tutti possono contribuire inviando la foto di un capo di abbigliamento e una brevissima storia che lo mette in scena. C’è pure un racconto mio, Cashmere.)
E dunque, come bilanciare verità e finzione nelle storie che dovrebbero rappresentare (e infatti rappresentano) il nostro vantaggio competitivo? Nel suo The Fortune Cookie Principle, Bernardette Jiwa ci spiega che il primo obiettivo di ogni azienda dev’essere quello di dare una risposta ai bisogni del consumatore (te ne ho parlato anch’io, nel post di introduzione alla ricerca tendenze). Quindi, dice Bernardette, «every brand story begins at the intersection of your business’s truth and the truth about what your customer needs or wants from you». C’è dunque il mio punto di vista (la mia verità). E poi c’è il punto di vista del mio consumatore (la verità che lui vuole sentirsi raccontare da me). La verità “vera”, ossia la storia che andrò a raccontare, nasce dall’intersezione di queste due verità, distinte ma interdipendenti: è ovvio che il mio consumatore non esiste senza di me (resterebbe un consumatore, ma non del mio prodotto), ma è altrettanto ovvio che neppure io esisterei senza il mio consumatore (un’azienda che non vende nemmeno un prodotto non è un’azienda, è qualcosa d’altro). «Good businesses become great brands when their truth intersects with the truth of what it is their customers really want» dice Bernardette Jiwa.
La storia che il mio consumatore vuol sentirsi raccontare da me non può riguardare solo il mio prodotto (com’è fatto, con cosa è fatto, a che serve…). Il mio consumatore vuol sentirsi raccontare altro. Ad esempio, il motivo per cui io esisto. Ovviamente ogni azienda nasce e cresce con l’obiettivo di generare un profitto, ma non può esserci solo questo: «The fifty top performing brands, in good economic times and in bad, were the ones that were founded on what Jim Stengel calls an ideal.» Un ideale. Suona troppo pomposo, troppo retorico? Forse la storia di The Hiut Denim Company ti farà cambiare idea.
Cardigan è una piccola cittadina del Mid Wales: ci vivono circa quattromila abitanti. Per trent’anni il dieci percento degli abitanti di Cardigan è riuscito a campare facendo una cosa: jeans (pensavi cardigan, vero? e invece no: jeans di tela denim). I jeans li facevano per un’azienda chiamata Dewhirts, circa 35mila paia a settimana. Poi, nel novembre del 2002, la Dewhirst ha spostato la produzione in Marocco, ché lì costava meno: da 35mila paia a zero, tasso di disoccupazione raddoppiato da un giorno all’altro, un saper fare accumulato in generazioni buttato nel cestino. Con queste premesse David e Clare Hiett hanno creato The Hiut Denim Company. La loro mission (ossia: la ragione per cui esistono, a parte far quadrare i conti a fine anno) è: «our town is going to make jeans again». Il modo con cui quest’azienda ha deciso di stare sul mercato (guadagnandoci, ovvio) è coerente con quell’ideale lì: la comunicazione, ossia le storie che hanno deciso di raccontare, è un’inevitabile conseguenza. « We make jeans. That’s it. Nothing else. No distractions. Nothing to steal our focus. No kidding ourselves that we can be good at everything.» Se hai voglia e dieci minuti di tempo, leggi i loro 23 comandamenti: sono meglio di qualunque manuale di business.
Coerenza, dunque: ecco la parola magica. Se la tua verità è coerente con il tuo posizionamento (o con un eventuale tentativo di riposizionamento), dilla. Se non lo è, non farlo. O dilla solo per metà. O per un quarto. E il contrario? Se a essere funzionale al mio posizionamento è una bugia? Non dirla comunque: il rischio di essere scoperti, di non poter sostenere la tua promessa con una reason why adeguata, è troppo alto. Non impelagarti, ad esempio, con una comunicazione che trasuda sostenibilità ambientale se per l’ambiente, a conti fatti, non stai facendo nulla (si chiama greenwashing, e nel marketing è una gran brutta parola).
Vuoi un esempio concreto? Eccolo. Si tratta della campagna stampa per la promozione del gorgonzola. Headline: Formaggio gorgonzola. Più lo conosci più ti piace. E fin qui, tutto bene. I problemi arrivano con il bodycopy che dice: Un formaggio a basso contenuto di grassi. Questa, in teoria, sarebbe la verità che il consumatore vuol sentirsi raccontare. Perché il consumatore, oggi, vuole storie che parlano di leggerezza, anche quando il protagonista principale è il formaggio, un prodotto, nella maggior parte dei casi, tutt’altro che leggero. Ma è credibile questa verità? Iniziamo col dire che il physique du role dello chef Cannavacciuolo non aiuta molto. Ma il colpo di grazia ce lo dà la reason why: L’aspetto cremoso e dolce dà l’impressione che il Gorgonzola possa essere un formaggio particolarmente grasso (vero). Non è proprio così (benissimo: allora provamelo) e lo confermano le analisi di laboratorio. Punto. Aspetta un momento: che analisi? che laboratorio? che conferme? Io voglio le prove: la quantità di grassi, il numero di calorie, un confronto con altri formaggi freschi e cremosi (gorgonzola: 28,74 grammi di grassi; ricotta: 7,91 grammi; crescenza: 23,3 grammi; stracchino: 25,2; cremoso spalmabile classico: 27,5 grammi; cremoso spalmabile light: 16,5 grammi). Cose così. Quella del gorgonzola non è una vera e propria bugia (ci sono formaggi cremosi ben più grassi, come il mascarpone), ma è una verità raccontata male, che un po’ zoppica, che si fa credere a fatica.
Ti ho parlato di storytelling. Ti ho parlato di bugie. E i videotape?
Di video te ne propongo uno: è stato realizzato da Lego per celebrare il suo ottantesimo anniversario, nel 2012. Guardarlo tutto richiederà diciassette minuti del tuo tempo, ma saranno diciassette minuti spesi bene. Anche questo video parla di ideali e del vero motivo che sta dietro l’esistenza di un’azienda. I fatti, in breve: nel 2003 Lego aveva sul groppone più di 200 milioni di dollari di deficit ed era stata costretta a licenziare circa mille dipendenti. Nel 2004 il deficit aveva raggiunto quota 300 milioni. A questo punto viene reclutato un nuovo CEO: Jørgen Vig Knudstorp. Nel 2005 Lego chiude l’anno con un attivo di 110 milioni di dollari. La magia di Jørgen? La decisione di rispolverare la vera mission di Lego, dopo anni passati a diversificare e a stiracchiare il brand a destra e sinistra per pasticciare nei business più disparati, dai parchi a tema all’abbigliamento. E la mission di Lego, la ragione della sua esistenza, la verità che i consumatori volevano sentirsi raccontare era questa: «to inspire and develop children to think creatively, reason systematically and release their potential to shape their own future – experiencing the endless human possibility». E quale strumento scegliere per raccontare questa verità? Ma naturalmente lo strumento principe della finzione: il cartone animato. Buona visione.