Valentina Durante – Copy & Story | Traslucenza o trasparenza?
Cosa mostrare e cosa non mostrare nella comunicazione tra marca e consumatore? Qualche riflessione e 5 indicazioni pratiche.
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Traslucenza o trasparenza?

 

Cosa mostrare e cosa non mostrare nella comunicazione tra marca e consumatore? Qualche riflessione e cinque indicazioni pratiche.

 

In un sintetico post di qualche anno fa, Seth Godin parlava della differenza fra traslucenza e trasparenza. «The market often seeks out the translucent. Things that glow. We’re drawn to the glow, to the illumination and warm feeling it brings.» E ancora: «But the brands and experiences and legends that lead to stories and affection and connection–it would be better if they glowed instead.» In somma: una marca, per affascinare, deve giocare con il detto e il non detto, con la finzione, con i simboli: solo in questo modo riesce a muovere, nel consumatore, un qualche tipo di sentimento o anche solo di fascinazione.

Approfondirò in questo articolo due questioni:

  • Se la traslucenza – posti i suoi lati positivi – si adatta a tutte le marche.
  • Se l’indurre un qualche tipo di sentimento o fascinazione nel consumatore si traduce, alla fin fine, in vendite (perché poi di questo campa un’azienda).

 

Cito, per incominciare, una cosa che apparentemente non c’entra nulla: è un manuale intitolato “Diritto alla poesia” di Antonio De Biasio, Alessandro Pegolo e Gian Marco Villalta. Vi si legge, nel primo capitolo: «Il linguaggio comunicativo è trasparente, mentre il linguaggio poetico è opaco. Ciò significa che nell’atto normalmente comunicativo noi non percepiamo il linguaggio; esso è soltanto un veicolo neutro che si conforma all’intenzione comunicativa, e mette a disposizione quelle espressioni che troviamo adeguate per dire ciò che vogliamo dire. Mentre, d’altro canto, più si allontana da questa condizione, più il linguaggio si pone in evidenza, oscura l’intenzione comunicativa, la rende meno immediata e ci obbliga a fissare l’attenzione sulle parole e sul modo in cui sono usate.»

Gli autori equiparano dunque la trasparenza alla comunicazione banale, ordinaria, quella dove le parole non si fanno percepire (il famoso: “Passami il sale, per favore”); mentre l’opacità (che occulta ancor più della traslucenza) è accostata alla parola poetica, che ha una forma, un peso, un colore, una materia… e un fascino. A questo punto potremmo dire: giacché la poesia è cosa buona e giusta, giacché non se ne legge mai abbastanza (se ne scrive, forse, e a sproposito, troppa), la traslucenza o opacità come veicolo per suscitare sentimenti o fascinazioni va sempre bene.

Notecard (No thought exists...), 1969

Mel Bochner, Notecard (No thought exists…), 1969.

 

E invece no. Infatti Seth Godin precisa:

«We’d like our tools and our replaceable institutions to be transparent. We want the bank and the radiologist and the tax man to be totally clear and invisible, so they can get out of the way and we can focus on what’s true

La discriminante appare dunque questa:

  • Se la nostra marca produce e vende prodotti che hanno un’influenza contenuta nella vita del consumatore (una tavoletta di cioccolato non è una faccenda di vita o di morte, così come non lo è un capo di abbigliamento o una lampada), possiamo (anzi: probabilmente dobbiamo) sperimentare con tutte le possibilità che la traslucenza ci offre: inventare storie, giocare con i simboli, costruire castelli di finzioni.
  • Se invece la nostra attività incide in modo determinante nella vita del consumatore (pensiamo alla relazione fra medico e paziente) la traslucenza può rivelarsi poco opportuna o addirittura dannosa: leggendo il risultato di una biopsia, io mi aspetto di trovarci una comunicazione chiara, sintetica ma esaustiva, comprensibile, dove le parole scompaiono per lasciar posto ai fatti. Devo sapere, prima di tutto, di potermi fidare.

 

Aggiungerei altre due riflessioni:

  • Anche con prodotti dall’importanza non vitale, la traslucenza va gestita con cautela: il rischio è che il consumatore resti così affascinato dalle storie, perdendo poi di vista il prodotto: quante volte ci è capitato di ricordare benissimo una pubblicità – magari molto bella – ma di non riuscire ad associarla alla marca che questa pubblicità promuoveva? E il rischio non è solo quello della dimenticanza: vi sono casi in cui una bella pubblicità viene associata non alla marca che la ha realizzata, ma a qualche concorrente (a es perché è il leader di mercato).
  • La trasparenza non esclude a priori un lavoro creativo con la lingua o l’utilizzo di simboli. Se – si legge sempre in “Diritto alla poesia” – appendiamo sulla porta di casa un foglio volante con scritto “Apri la porta per favore” (che sembra presentare, così com’è, un enigma) ma ci accordiamo preventivamente con un amico che il significato di quella frase è: “Sono passato in banca per ritirare i soldi”, la trasparenza è massima.
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Mettersi d’accordo…

 

Riassumendo, possiamo ricavare queste indicazioni:

  • Tutto si può fare, ma va fatto con un solo obiettivo in testa: non danneggiare la marca e il suo rapporto con il consumatore.
  • La traslucenza è da evitare quando ci troviamo all’interno di una relazione sbilanciata, dove il consumatore (o chi usufruisce di un servizio) si trova in una condizione di difficoltà o minorità (il già citato rapporto medico-paziente).
  • Servirsi della traslucenza (o della vera e propria opacità) per camuffare punti deboli della marca è autolesionista nel lungo periodo. Il consumatore può credere a tutto, tranne a due cose: i pasti gratis e l’esistenza di marche perfette (o di qualunque cosa che sia perfetta, giacché la perfezione non è di questo mondo). Ammettere una debolezza, un errore è – senza dover fare dell’esibizionismo a rovescio – il primo passo per generare empatia e costruire relazioni durature.
  • Costruire relazioni durature significa generare reale profitto: i consumatori che si entusiasmano per le nostre storie e le nostre finzioni (dunque per ciò che della nostra marca mettiamo in scena) potranno certo dare gratificazione, ma quello che conta – alla fine – è la vendita del prodotto, ossia di un elemento reale. Sono i consumatori fedeli a sostenere una marca: quelli che acquistano e riacquistano il prodotto reale, non quelli che si limitano a farsi affascinare dalle storie o a mettere il “mi piace” su Facebook.
  • Guastare la relazione con quest’ultimo tipo di consumatori (i fedeli) in nome dello sfizio creativo o dello storytelling- perché-lo-fanno-tutti è un vero e proprio spreco. Cosa significa? Che una narrazione affascinante non potrà mai sostituire un prodotto onesto, una buona rete distributiva, una buona assistenza pre, durante e post-vendita.

 

Mel Bochner, Language Is Not Transparent, 1969

Mel Bochner, Language Is Not Transparent, 1969

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