Valentina Durante – Copy & Story | Un buon incipit? A volte è come una pubblicità (e viceversa)
Da Bernhard a Garagista, da Levi a Piazza Italia: come si lavora con il target.
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Un buon incipit? A volte è come una pubblicità (e viceversa)

Da Bernhard a Garagista, da Levi a Piazza Italia: come si lavora con il target.

 

Thomas Bernhard inizia il suo “Antichi maestri” così:

«Pur avendo appuntamento con Reger soltanto per le undici e mezzo al Kunsthistorisches Museum, mi trovai là fin dalle dieci e mezzo per poterlo finalmente osservare, come già da tempo mi ero ripromesso, senza alcun disturbo e da un’angolazione possibilmente ideale, scrive Atzbacher. Poiché di mattina il suo posto riservato è nella cosiddetta Sala Bordone di fronte all’Uomo dalla barba bianca di Tintoretto, sulla panca rivestita di velluto dove ieri, dopo avermi illustrato la sonata chiamata Tempesta, ha continuato la sua conferenza sull’Arte della fuga da prima di Bach fino a dopo Schumann, come lui la definisce, pur non avendo fatto altro, spinto dal suo estro, che parlare di Mozart e non di Bach, io dovetti appostarmi nella cosiddetta Sala Sebastiano; a malincuore fui dunque costretto, per poter osservare Reger davanti all’Uomo dalla barba bianca di Tintoretto, a sorbirmi Tiziano…»

Knut Hamsun inizia il suo “Fame” così:

«A quel tempo ero affamato e andavo in giro per Christiania, quella strana città che nessuno lascia senza portarne i segni…

Ero coricato, sveglio, nella mia soffitta: sotto di me una pendola che sonava le sei. Era già piuttosto chiaro. Sulle scale si sentiva una certa animazione. In basso, accanto alla porta, dove la parete era tappezzata con vecchi numeri del «Morgenbladet», distinguevo benissimo un avviso del direttore dei Fari. Un po’ più a sinistra il fornaio Fabian Olsen elogiava a lettere cubitali il suo pane fresco.

Appena aperti gli occhi mi ero messo a riflettere: ci sarà oggi qualche cosa che mi possa dar gioia? Gli ultimi tempi erano stati per me piuttosto magri.»

Pur nella loro diversità, trovo che sia quello di “Antichi maestri” sia quello di “Fame” siano incipit molto “pubblicitari”. Prima di spiegare in che termini, faccio una sintetica premessa: la comunicazione pubblicitaria non può avere (ovviamente) la stessa distensione e lo stesso respiro di un racconto o di un romanzo: deve dire molte cose (o meglio: le cose giuste) nel minor spazio possibile. Deve, inoltre, agire in un contesto di interruzione o di rifiuto. Una buona pubblicità è quella che riesce a condensare in poche parole e/o immagini la triade che sta alla base del famoso modello di Jakobson:

mittente  –  messaggio  –  destinatario

che in pubblicità diventa:

marchio/prodotto  –  messaggio  –  target

Perché dunque ho definito “pubblicitari” i due incipit di Bernhard e Hamsun? Perché contengono, fin dalle prime frasi, informazioni essenziali sul mittente (la voce narrante e lo stile, già molto ben definiti: dall’ossessività ridondante di Bernhard, al miscuglio di pittoresco, denuncia e autocommiserazione di Hamsun); sul messaggio (la storia che verrà raccontata: le conversazioni pedanti di Reger nel caso di Bernhard; i miserevoli vagabondaggi per Christiania nel caso di Hamsun); e sul destinatario (in modo indiretto, la tematica affrontata – dissertazioni colte sull’arte nel caso di Bernhard; “l’idillio anarchico-romantico del perdigiorno”* nel caso di Hamsun – orienta fin da subito il lettore, gli fa capire se si tratta di un’opera adatta a lui, un’opera alla quale potrebbe volentieri dedicare del tempo).

La “profilazione del target” è fondamentale in pubblicità. Non è vero che bisogna comunicare a quante più persone possibile: bisogna invece comunicare alle persone giuste. E neppure è vero che bisogna vendere a quante più persone possibile: bisogna vendere alle persone che la nostra strategia di marketing ha identificato come target, ossia ai consumatori compatibili con il nostro posizionamento.

Quanto possa nuocere una scarsa consapevolezza del destinatario (e di marketing e di comunicazione) lo spiega la storia del marchio Fila.

Fila

Fila: l’evoluzione del target negli anni Ottanta.

Fila nasce nel 1926 come produttore di maglieria (il nome completo è: Maglificio Biellese Fratelli Fila). Negli anni Settanta, l’azienda comincia a esportare negli Stati Uniti e parallelamente diversifica il prodotto, entrando nel mercato dell’abbigliamento sportivo. Per acquisire rapidamente credibilità, investe nelle sponsorizzazioni: Borg, Panatta, Bertolucci, Vilas nel tennis; Messner, Bonatti, Mauri nell’alpinismo; Stenmark nello sci. Il target, sia di marketing che di comunicazione, è chiaramente definito: lo sportivo, dilettante o professionista, che cerca capi molto tecnici, utilizzati e garantiti dagli stessi atleti. A questo punto, però, accade qualcosa di inaspettato: i rapper del ghetto (i B-boys) trasformano Fila in un marchio aspirazionale, e cominciano a ricercarne e indossarne i prodotti. L’azienda – senza grandi riflessioni strategiche, ma semplicemente rispondendo a una richiesta di mercato – asseconda questo nuovo target in tre modi: lanciando sul mercato prodotti dal prezzo sempre più abbordabile; interrompendo le sponsorizzazioni sportive; investendo nella pubblicità tradizionale, con campagne dai toni molto urbani e cupi. La sua immagine tecnica ne risulta annacquata, gli sportivi si disaffezionano e il nuovo target, dopo l’entusiasmo iniziale, si stanca, eleggendo a feticcio altri prodotti e altri marchi. Nell’arco di quattro anni (dal 1981 al 1985) il fatturato dell’azienda si dimezza (da 140 a 72 miliardi): ci vorrà un quinquennio (nonché un cambio di vertici aziendali e una revisione della strategia di marketing e un ritorno convinto alle sponsorizzazioni) per ritornare ai livelli di inizio Ottanta.

Questo, che io scherzosamente chiamo “il bacio della morte delle sottoculture urbane”, spiega come l’identificazione del target vada fatta a priori (e non a posteriori, gettando l’esca in mare per vedere il primo che abbocca) e sempre all’interno di una consapevole strategia di posizionamento.

Vediamo ora alcune campagne stampa che riescono a definire in maniera chiara (benché non didascalica) il target.

Cliente: Rothhammer Beer. Agenzia: Prolam Y&R

Cliente: Rothhammer Beer. Agenzia: Prolam Y&R

 

Mondadori_saatchi

Cliente: Mondadori. Agenzia: Saatchi & Saatchi

 

Garagista_FoxP2

Cliente: Garagista. Agenzia: Fox P2

 

Profilazione_capri_diaframma

Cliente: Piazza Italia. Agenzia: Diaframma.

 

Profilazione_Y&R

Cliente: A Zonzo Travel. Agenzia: Y&R

 

Anche in letteratura, peraltro, può capitare di imbattersi in esplicite riflessioni sul target. Prendiamo questo estratto dalla “Chiave a stella” di Primo Levi. Il narratore, dopo aver spiegato il suo lavoro di chimico e le proprietà di una vernice alla quale sta lavorando, chiede a Faussone se lo sta seguendo.

«“Si capisce”, ha risposto Faussone in tono quasi offeso. Può essere invece che non mi segua il lettore, qui e altrove, dove è questione di mandrini, di molecole, di cuscinetti a sfere e di capicorda; bene, non so che farci, mi scuso ma sinonimi non ce n’è. Se, come è probabile, ha accettato a suo tempo i libri di mare dell’Ottocento, avrà pure digerito i bonpressi e i palischermi: dunque si faccia animo, lavori di fantasia o consulti un dizionario.»

Il lettore (il target), qui, non è chi di professione s’intende di chimica, ma chi è disposto o a “lavorare di fantasia” o a “consultare un dizionario”, venendo incontro al narratore.

E i famosi venticinque lettori manzoniani? Lì siamo, pubblicitariamente parlando, in una situazione di “understatement”. Ma su questo torneremo.

 

* la definizione è di Claudio Magris.

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